Disastro olimpico

Giulia Pompili

A una settimana dai Giochi di Pechino 2022, tra boicottaggi e propaganda, l’unica cosa certa è che lo sport è anche politica

Il motto dei Giochi olimpici invernali che si apriranno il 4 febbraio prossimo a Pechino è “Insieme per un futuro condiviso”, ma il megaevento sportivo cinese sembra sempre di più motivo di divisioni e controversie, non solo internazionali. Niente di nuovo: anche quando vengono organizzate da paesi democraticissimi, le Olimpiadi si portano dietro parecchi problemi. Lo scorso anno più dell’ottanta per cento della popolazione giapponese voleva che il governo di Tokyo annullasse, dopo averli rinviati di un anno, i Giochi estivi: avevano paura che le Olimpiadi si sarebbero trasformate nella fonte di una nuova epidemia di Covid, che avrebbe messo sotto stress le terapie intensive nipponiche, portando quindi a nuove chiusure e semi-lockdown. L’esecutivo, allora guidato dal primo ministro Yoshihide Suga, rispose: non se ne parla. Qualche mese dopo, Suga è stato messo alla porta. Gli ultimi Giochi che si sono svolti prima della pandemia li ha ospitati la Corea del sud, nella contea di Pyeongchang. Gli hanno dovuto pure cambiare nome, mettendo la C di PyeongChang maiuscola perché i distratti osservatori stranieri non la confondessero con la capitale nordcoreana, Pyongyang. Posizionata nel mezzo della catena dei monti Taebaek, prima delle Olimpiadi PyeongChang non era un gran luogo turistico, in una delle province più povere della Corea del sud, e il governo di Seul voleva sfruttare l’occasione dei Giochi per rilanciarlo: hanno costruito una ferrovia ad alta velocità per connetterla con la capitale in 80 minuti, uno stadio olimpico da più di cento milioni di dollari – demolito poco dopo la cerimonia di chiusura delle paralimpiadi, ma era previsto –  e un parco olimpico gestito da una fondazione che si occupa delle “eredità” delle Olimpiadi. Ma i turisti non sono arrivati, i resort rinnovati per l’occasione ospitano solo visitatori coreani e diverse strutture sportive hanno iniziato a chiudere un anno dopo l’evento. Perfino l’unica pista da bob, slittino e skeleton del paese è stata smantellata per via dei costi di manutenzione eccessivi. Al di là dei risultati sportivi, però, le Olimpiadi di PyeongChang erano quelle “del disgelo” con la Corea del nord. 

 

“I Giochi olimpici non riguardano la politica”, ha scritto l’anno scorso in un editoriale sul Guardian Thomas Bach, fiorettista tedesco e dal 2013 presidente del Comitato olimpico internazionale. Ma è ovvio che intendesse l’esatto contrario (del resto, più in là aveva pure scritto che “i Giochi Olimpici non riguardano il profitto”): le Olimpiadi sono la politica interazionale al suo meglio. Piuttosto, sono gli atleti a essere le vittime di un meccanismo infernale, fatto di potere politico, sponsor, soldi  e una carriera intera messa alla prova da una singola gara. A PyeongChang a un certo punto le competizioni vennero messe da parte nel racconto mediatico dell’edizione – con crisi d’indentità degli inviati sportivi internazionali costretti a reinventarsi analisti politici – quando arrivò il disgelo  e “i cattivi” furono ufficialmente invitati. Il presidente sudcoreano Moon Jae-in aveva chiesto alla Corea del nord di partecipare sotto una unica bandiera, e la leadership di Pyongyang aveva accettato. Rimarranno nella storia le fotografie dell’allora vicepresidente Mike Pence seduto davanti alla sorella del dittatore Kim Jong Un, Kim Yo Jong, alla cerimonia d’apertura dei Giochi olimpici invernali sudcoreani. Ne seguì un lungo periodo di apertura e dialogo, e tutti tirarono un sospiro di sollievo perché che potesse andare malissimo era tra le possibilità molto concrete. L’ultima volta che la Corea del sud aveva ospitato i Giochi olimpici estivi a Seul era il 1988, e pochi mesi prima della cerimonia d’inaugurazione, probabilmente proprio per protestare contro le Olimpiadi, Pyongyang aveva portato a termine il suo primo (e unico) attacco terroristico. Era il 29 novembre del 1987 e una bomba esplose sul volo 858 della Korean Air diretto a Seul da Baghdad. Morirono tutti, i 104 passeggeri e gli 11 membri dell’equipaggio. Quell’anno le Olimpiadi furono boicottate soltanto da Corea del nord e Cuba. Seul 1988 era la prima olimpiade dopo alcune manifestazioni particolarmente complicate.

 

All’epoca erano passati soltanto quattro anni dalle famose Olimpiadi di Los Angeles del 1984, un’edizione disastrosa di cui si parla spesso in questi giorni di vigilia di Pechino 2022, che molti leader vorrebbero boicottare ma i boicottaggi sono sempre una cosa molto complicata. Il 6 dicembre scorso il presidente americano Joe Biden ha annunciato un “boicottaggio diplomatico” delle Olimpiadi di Pechino. Vuol dire: non mandiamo nessun rappresentante delle istituzioni, ma gli atleti sì, eccome. Il motivo è “la sistematica violazione dei diritti umani in Cina”: dopo aver definito “genocidio” quello contro la minoranza uigura nello Xinijiang, era difficile per l’Amministrazione americana  assistere dal vivo a una celebrazione del “modello cinese” senza perdere la faccia.  E del resto la regia del mastodontico show previsto  il 4 febbraio prossimo è stata affidata nuovamente al regista Zhang Yimou, ormai gran maestro della propaganda che ha diretto anche la spettacolare esibizione del 2008, quella che lasciò sbalorditi gli spettatori di mezzo mondo. Ma nel 2008 la Cina era una potenza in costruzione, che stava uscendo dal cosiddetto “Secolo delle umiliazioni”. A supervisionare i preparativi delle Olimpiadi di Pechino 2008 era stato un giovane Xi Jinping, allora vicepresidente e numero 6 del Comitato permanente dell’ufficio politico del Partito comunista cinese, l’ideologo del nuovo Sogno cinese. Quattordici anni fa, George W. Bush volò a Pechino per assistere alla cerimonia d’apertura di Pechino 2008 – proprio negli stessi giorni in cui la Russia iniziava l’invasione della Georgia. 

 

Oggi tutto è cambiato e la Cina si è trasformata in una minaccia spesso ritenuta più importante della Russia. “Forse la trasformazione più incredibile è stata la crescita esplosiva dell’economia telefonica cinese”, ha scritto sul Washington Post Eva Dou. “Nel 2008, gli smartphone erano un lusso fuori dalla portata della maggior parte delle persone della nazione. Oggi, avere uno smartphone è praticamente una necessità per sopravvivere nelle città cinesi, con codici QR usati per il monitoraggio dello stato di salute durante la pandemia e un numero sempre più alto di rivenditori che accettano solo pagamenti virtuali, e non i contanti”. Xi ha “abolito la povertà” nel 2021, ma ha “depurato” internet da tutte le attività che promuovono il pensiero critico: “Come segno di buona volontà in vista delle Olimpiadi del 2008”, scrive Dou, “Pechino ha sospeso la censura su Wikipedia e YouTube e ha allentato alcune restrizioni sui giornalisti stranieri. Molto è cambiato da allora. Da quando Xi è salito al potere, il suo governo ha costantemente aumentato le restrizioni alla libertà di parola, alla protesta politica e ai media”. I dettagli sullo show d’apertura sono top secret, ma “è una cerimonia a cui nessuno dovrebbe mancare per nessun motivo” ha detto il regista. Una straordinaria vetrina della propaganda cinese a cui, però, in pochi potranno partecipare dal vivo. 

 

Al boicottaggio diplomatico americano, infatti, si sono poi uniti altri paesi: l’Australia, il Regno Unito, il Canada, e poi Belgio, Lituania ed Estonia. Altri governi hanno deciso che comunque non manderanno delegazioni oltre a quelle sportive per via del Covid – a molti è sembrata una scusa per non pronunciare la parola boicottaggio, ma tant’è: sono Austria, Slovenia, Svezia, Paesi Bassi, Nuova Zelanda. Ieri il ministero degli Esteri di Pechino ha annunciato la lista dei dignitari stranieri, dei capi di stato e delle organizzazioni internazionali che saranno presenti alla cerimonia d’apertura, e il primo nome menzionato dal comunicato è quello del presidente russo Vladimir Putin. Poi ci saranno i leader dei paesi dell’Asia centrale: il presidente del Kazakistan Kassym-Jomart Tokayev, il presidente del Kirghizistan Sadyr Japarov, quello del Tajikistan Emomali Rahmon, quello del Turkmenistan Gurbanguly Berdimuhamedov e quello dell’Uzbekistan Shavkat Mirziyoyev. E gli amici, diciamo così, ideologici di Pechino: il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi, il principe saudita Mohammed bin Salman bin Al Saud, l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani, il principe ereditario e ministro della Difesa di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il presidente polacco Andrzej Duda e il presidente serbo Aleksandar Vučić. Alla fine la Corea del sud invierà “soltanto” lo speaker del Parlamento, mentre l’Azerbaigian il viceministro. Nessuno dal Giappone ma nemmeno dalla Turchia – economicamente molto vicina a Pechino – per via della delicata questione della repressione, da parte della Cina, della minoranza turcofona degli uiguri. E invece saranno presenti alla cerimonia d’apertura il presidente del Cio Thomas Bach ma anche il direttore generale delle Nazioni Unite António Guterres, e perfino il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus, che andò anche all’apertura  di Tokyo 2020, poi diventato Tokyo 2021, come simbolo di garanzia di un evento sanitariamente sicuro. 

 

La questione del boicottaggio è estremamente delicata, e lo è anche per l’Italia, che a Pechino dovrà fare il passaggio della torcia olimpica verso Milano-Cortina 2026. Alla cerimonia d’apertura avrebbe dovuto esserci, come rappresentante dell’esecutivo, Valentina Vezzali, sottosegretaria alla presidenza del Consiglio con delega allo sport, che però è risultata positiva al virus Sars-Cov-2. Ci sarà il presidente del Coni Giovanni Malagò, già in partenza per Pechino.  Ma al di là degli equilibrismi la questione è soprattutto politica: mettersi contro la Cina conviene? E’ qui che torna l’esempio di Los Angeles. Le Olimpiadi americane del 1984 furono boicottate dall’intero blocco sovietico, che lo fece per rivincita: quattro anni prima, ai Giochi olimpici di Mosca 1980, avvenne la prima vera irruzione della politica nelle faccende sportive dell’epoca moderna. L’America di Jimmy Carter e altri 66 paesi politicamente vicini a Washington boicottarono le Olimpiadi ospitate nella capitale dell’Unione sovietica per protestare contro l’invasione russa dell’Afghanistan. Il risultato fu che la maggior parte delle medaglie furono vinte dall’Unione sovietica e dalla Germania dell’est, e decine di atleti che persero l’occasione della vita per una questione puramente politica. Sempre sul Guardian, Thomas Bach ricordava quell’edizione: “Poco prima della cerimonia di apertura, guardai fuori dalla finestra della nostra stanza al Villaggio olimpico e vidi un gruppo di atleti africani con i bagagli. Molti erano in lacrime, altri chinavano la testa per la disperazione. Domandai cosa stesse succedendo, e mi dissero che dovevano andarsene perché i loro governi avevano deciso all’ultimo momento di boicottare i Giochi. La loro disperazione per aver visto infranto il loro sogno olimpico dopo così tanti anni di duro lavoro mi perseguita ancora oggi”.

 

Qualche settimana fa Noah Hoffman, ex fondista americano, ha detto una cosa molto sensata: “E’ falso dire che siamo liberi di scegliere se andare o no: la nostra carriera dipende dalle Olimpiadi”. E’ la trappola degli atleti, usati per la politica e schiacciati dentro a un infernale meccanismo politico. Ed è una trappola anche per gli sponsor e i finanziatori: oggi quasi tutti i grandi eventi sportivi sopravvivono anche grazie alla presenza di sponsor cinesi, ed è esattamente così che funziona il meccanismo dell’autocensura che Pechino conosce alla perfezione. Un’analisi della Bbc dimostra “una drastica riduzione dei tweet degli sponsor globali che si riferiscono ai Giochi olimpici rispetto a quelli estivi dello scorso anno a Tokyo”. E’ vero che le Olimpiadi invernali sono generalmente meno seguite di quelle estive, ma per gli sponsor internazionali mettere il volto su Giochi così controversi è scivolosissimo: “I partner internazionali ufficiali delle Olimpiadi sono Airbnb, Alibaba, Allianz, Atos, Bridgestone, Coca-Cola, Intel, Omega, Panasonic, Procter & Gamble, Samsung, Toyota e Visa. A parte Allianz, sono stati tutti partner anche per Tokyo 2020. In vista delle Olimpiadi in Giappone, molti partner hanno spinto contenuti collegati sui social media, esaltando i Giochi. […] Eppure, a oggi, quegli stessi account menzionano a malapena Pechino 2022”. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.