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La rivoluzione scolorita

In Kazakistan ci si chiede dov'è Nazarbayev. Le ipotesi del golpe

Anna Zafesova

La rivoluzione scolorita kazaka per ora non ha un nome, un volto e uno slogan riconoscibili, e Tokayev non glielo chiede nemmeno. Quella che era nata come protesta popolare in piazza però sta assumendo sempre più i contorni di un colpo di stato

“La Cina condanna le forze esterne che hanno cercato di innescare una rivoluzione colorata”: la dichiarazione di Xi Jinping nella forma in cui viene ripresa dai media russi sembra scritta da un propagandista di Vladimir Putin. Nessun altro prende più sul serio l’ipotesi delle “rivoluzioni colorate” che si portavano tanto una ventina d’anni fa, rivolte popolari in piazza contro gli autocrati post sovietici, bollate dai diretti interessati come complotti della Cia. L’allineamento del compagno Xi alla retorica russo-bielorusso-kazaka, assieme a un esplicito incoraggiamento alle “azioni decise” del presidente Qasim-Jomart Tokayev – che ha promesso in televisione di “sterminare chi non si arrende” – conferma che la Russia ha mandato i suoi militari in Kazakistan con l’assenso di Pechino. Che sembra perfettamente soddisfatta dall’ipotesi di un vicino meno “multivettoriale” – la tanto vantata politica equilibrata condotta per 30 anni dal padre della nazione e presidente fino al 2019 Nursultan Nazarbayev – e più sintonizzato su Mosca.

 

Mentre da Almaty, Aktau e Pavlodar arrivano voci sporadiche e contraddittorie di nuove rivolte, di sparatorie in piazza, di centinaia di arresti, e di un numero imprecisato ma elevatissimo di morti e feriti, l’ipotesi della rivoluzione pacifica sembra essere sfumata ancora prima dello sbarco dei parà russi e bielorussi. La retorica di Tokayev ricorda quella di Putin all’epoca della guerra cecena: in piazza ci sono solo “terroristi”, “nessun negoziato possibile con gli assassini”, “sparare a vista”. Il leader che solo 48 ore prima sembrava venire incontro alle proteste, ora non riconosce ai cittadini  nemmeno il diritto di esistere. Circostanza che rende impraticabile una rivoluzione colorata, basata sull’assunto che la violenza sia un male assoluto, e un governo che reprime il proprio popolo venga espulso dal club delle nazioni civili. Infatti l’unico paese dove una rivoluzione colorata ha vinto due volte è l’Ucraina, una democrazia (con altre due mezze vittorie in semidemocrazie come  Georgia e Kirghizistan). Tutti gli altri tentativi sono falliti prima di iniziare: in Bielorussia, in Russia, in Kazakistan, come in Cina e a Hong Kong, in regimi dove già scendere in piazza è un reato, e il potere non ha nessuna remora a farsi una brutta reputazione

 

La rivoluzione scolorita kazaka per ora non ha un nome, un volto e uno slogan riconoscibili, e Tokayev non glielo chiede nemmeno. Quella che era nata come protesta popolare in piazza, sta assumendo sempre più i contorni di un colpo di stato: Tokayev ha riacceso la tv nazionale per mostrare un ex consigliere del suo precedessore Nazarbayev che denuncia una “congiura” ordita dal Comitato di sicurezza nazionale, il Kgb locale, guidato fino a due giorni prima da Karim Massimov, e Samat Abish, rispettivamente fedelissimo e nipote dell’ex presidente. I servizi avrebbero nascosto l’esistenza di “campi di addestramento di terroristi”, macchiandosi di “alto tradimento”, e la voce dell’arresto di Abish spiega perché Tokayev ha convocato i russi: non si fidava dell’apparato di sicurezza, in mano al suo mentore Nazarbayev. Che non si è fatto più vedere né sentire dalla fine dell’anno scorso: qualcuno lo dà per morto, altre fonti lo collocano a Mosca, Dubai o Zurigo, in fuga insieme alle tre figlie e al nutrito clan di oligarchi.

Se così fosse, tanti tasselli inspiegabili trovano la loro collocazione. Tokayev è ritenuto un “filocinese”, molto più del “multivettoriale” Nazarbayev. Il licenziamento di Massimov era stato interpretato da molti come un favore a Pechino, preoccupata che la sicurezza del suo vicino – che confina con lo Xinjiang  – fosse affidata a un uiguro. Una svolta a est, dunque, nella quale resta da capire se Putin si è fatto coinvolgere in quella che rischia di diventare una guerra civile tra clan perché consapevole e consenziente di voler creare un asse sempre più stretto con Pechino  – l’incubo dell’occidente e in particolare di Joe Biden – oppure se Tokayev abbia fatto leva sulla sua paura di una “rivoluzione colorata”, già sfruttata da Aljaksandr Lukashenka, non a caso attivissimo nel mandare i suoi uomini e  nell’incitare l’intervento militare del Cremlino in Kazakistan.