(foto EPA)

Qualcosa non torna in questo medio oriente sempre uguale

Giuliano Ferrara

Hamas ancora la stessa, gli eredi di Arafat tra impotenza e corruzione. E Israele sembra avere smarrito il filo di una missione: usare la forza al servizio di una pacificazione durevole

Ho letto religiosamente la lettera al Foglio dell’ambasciatore di Israele, era inappuntabile e atroce la sua descrizione della ideologia e della pratica annientatrice di Hamas, ennesima ma sempre nuova. Letto l’appello dei settantacinque in Francia, perfetti i loro argomenti a demolire la sporca nazificazione dei comportamenti militari di Israele verso un nemico temibile, insidioso, feroce, in un contesto minaccioso per l’esistenza di un popolo e di uno stato democratico. Registrati con la consueta miscredenza gli alti lai degli indignati, oggi impegnati nel rebranding, si dice così, della questione palestinese: colonialismo, palestinian lives matter, la sorte delle vittime civili, dei bambini, la contabilità del male ricorrente e astrusa, fredda, cinica, propagandistica, e niente su islamismo politico, terrorismo, condizione prenucleare dell’Iran. Io non faccio alcun rebranding, l’ennesima tragedia di Gaza, chiusa solo provvisoriamente da un coprifuoco tardivo, non ha niente da dirmi di nuovo, niente che non sapessi

 

Eppure qualcosa non mi torna, non torna. Sono nato praticamente con lo stato di Israele, la generazione è quella, tutta la mia vita è stata accompagnata e scandita dalla tragica epopea di Gerusalemme, del Giordano, della guerra, dei dirottamenti aerei, degli eccidi, della mitica costruzione di una barriera di intelligence e di forza a difesa di una vita sempre solo apparentemente normale, e della pace impossibile, della lacerazione dell’opinione pubblica tra gli israeliani e tra gli ebrei di tutto il mondo. Credo di credere che il problema non è Netanyahu, la famosa destra israeliana che nei momenti importanti è anche la sinistra e il centro, non è nemmeno la decisione di Trump su Gerusalemme capitale del nuovo stato, non è il prolungato stato di occupazione delle terre conquistate in una guerra di quasi mezzo secolo fa, non è nell’annullamento della dignità di popolazioni costrette in aree densamente popolate a vivere la vita di profughi sempre in fuga folle di fronte alla sfuggente promessa di una normalizzazione e di un orizzonte di pace, non è nemmeno nella sproporzione tecnologica impressionante tra un fronte dei razzi e delle fionde e un fronte compatto e ferrigno capace di fare fuoco e individuare obiettivi con inaudita e celeste potenza. Eppure un problema c’è, oscuro se vogliamo, sfuggente, ma c’è.

Con l’Israel day di quasi vent’anni fa, aprile 2002, cercammo di affermare che la solidarietà non è solo con Israele come vittima, ma con il paese che mandava i carri armati nella striscia di Gaza e in Cisgiordania per sradicare le infrastrutture del terrorismo, in un quadro mondiale sinistro segnato dall’11 settembre 2001, e che subiva un ingiusto isolamento morale per via del suo coraggio e della sua disponibilità a combattere per tutti. Niente di fondamentale è cambiato, tutto questo è sempre più vero e sempre più assente, incredibilmente, dalla chiacchiera umanitaria che spesso è l’ultimo rifugio delle canaglie. Ma eccolo il problema: niente è cambiato.

Gaza fu evacuata, le sinagoghe furono distrutte, la diplomazia di Abramo cosiddetta ha prodotto accordi dal sapore bisnizzaro che producono il nulla, e Hamas è quella di sempre, i palestinesi rappresentati nella Cisgiordania dagli eredi di Arafat oscillano tra impotenza e corruzione tribale, e un Israele effervescente, dinamico, ricco, forte stende la sua rete di sicurezza sempre con gli stessi metodi, incontra sempre gli stessi inciampi, non risolve la questione territoriale, non la questione strategica, non la definizione di qualcosa che sia anche solo pallidamente simile al concetto di vittoria e pacificazione.

In tutto questo, come ha notato Yossi Klein Halevy, qualcosa si smarrisce in profondità. L’identità israeliana non aveva mai perduto il filo di una specie di missione, dominare il rigetto e la violenza su più dimensioni, mettendo quella della forza al servizio della costruzione politica e della persuasione morale sulla possibilità di una pacificazione durevole, di una tregua organica, produttiva di prospettive e protetta. Ora quel filo sembra smarrito, e prevale una strana spavalderia nel mezzo di un naufragio, mentre si fa avanti l’osceno contemporaneo, cioè l’idea che l’affermazione patriottica sionista di un focolare nazionale per gli ebrei sia un’impresa di tipo coloniale.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.