Come è andata la superdomenica elettorale in Sudamerica

Maurizio Stefanini

Dal voto in Ecuador, Perù e Bolivia ci si aspettava il ritorno della "marea rosa" di sinistra. Invece sono la destra e il centro-destra i vincitori delle elezioni. Con un'incognita

L'avevano chiamata “la superdomenica elettorale andina”. Secondo turno delle presidenziali in Ecuador, primo turno delle presidenziali in Perù, secondo turno delle amministrative in Bolivia. A parte la curiosità di riunire alle urne il vecchio impero incaico del Tawantinsuyu; a parte la sfida del portare al voto tre paesi assieme al tempo del Covid: l’appuntamento era diventato un test per quello che è stato definito da alcuni come un principio di ritorno della “marea rosa” di sinistra che aveva caratterizzato l’America Latina nel primo decennio del XXI secolo. Invece, centro-destra e anche destra appaiono alla riscossa, anche se in Perù c’è l’incognita di un candidato particolarmente radicale che a sorpresa ha preso molto di più di quanto ci si aspettasse.  

 

Il “ritorno della marea rosa” è una tendenza che, mentre Maduro in Venezuela e Daniel Ortega in Nicaragua si arroccano al potere in modo sempre più autoritario, aveva già visto il primo luglio del 2018 Andrés Manuel López Obrador vincere le presidenziali in Messico. Poi il 10 dicembre del 2019 Alberto Fernández diventare presidente dell’Argentina contro il liberale Mauricio Macri, portandosi Cristina Kirchher come vicepresidente. Poi il 18 ottobre 2020 Luis Arce vincere le presidenziali in Bolivia, e permettere così il ritorno in patria di Evo Morales dopo un anno di esilio.  López Obrador e Fernández hanno stabilito tra di loro un asse che va dalla gestione de vaccini all’annuncio di un nuovo modello economico, e al quadro bisogna aggiungere da una parte le proteste in Cile; dall’altra i guai di Bolsonaro e la riabilitazione di Lula determinano uno scenario di possibile ritorno al potere del leader del Pt. Anche se in realtà lo scenario è ancora molto incerto.

 

In Ecuador il primo turno del 7 febbraio sembrava anch’esso ripercorrere uno scenario boliviano. Anche lì il presidente chavista Rafael Correa è stato costretto all’esilio, anche se non da una rivolta, ma dalla rottura col suo delfino ed ex-vicepresidente Lenín Moreno. Il 37,72 per cento era stato infatti ottenuto proprio dall’uomo di Correa, l’economista ed ex-ministro della Cultura  Andrés Arauz. Al ballottaggio era andato il banchiere Guillermo Lasso, leader del centro-destra, con un 19,74 per cento che è meno sia del 28,09 che aveva ottenuto nel 2017 contro Moreno, sia del 22,68 ottenuto nel 2013 contro Correa. Al ballottaggio Lasso è andato solo per una incollatura sul leader indigeno Yaku Pérez, che col suo 19,39 per cento ha denunciato brogli e fatto campagna per il voto nullo al ballottaggio. E anche il quarto classificato era un candidato di sinistra: il socialdemocratico Xavier Hervas, con il 15,68. 

 

Il 65enne Lasso è un self-made man di famiglia povera, che iniziò a lavorare a 15 anni perché il padre non poteva pagargli gli studi. Ma l’essere stato presidente del potente Banco de Guayaquil è un handicap, in un paese dove la grave crisi bancaria degli anni ’90 creò miseria e costrinse a adottare il dollaro come valuta. Però essere associato a Correa alla fine è risultato più penalizzate ancora, dopo i gravi scontri che lo avevano contrapposto al movimento indigeno. Inoltre Lasso, pur essendo un esponente dell’Opus Dei e avendo un figlio prete, ha fatto un discorso di apertura in termini di gender e minoranze sessuali, oltre che sull’ecologia e i diritti del lavoro. Insomma, alla fine anche gli elettori di Pérez e Hervas sembrano aver fatto blocco su Lasso, dandogli un comodo 52,43 per cento. Presidente e leader del blocco anti-Maduro si sono subito congratulati: dal cileno Piñera al colombiano Duque passando per Macri e Guaidó. Ma lo stesso Correa ha riconosciuto la vittoria, facendo i suoi auguri al vincitore e chiedendogli in pratica che gli permetta di tornare.  

 

 

 

All’esatto contrario del cattolico pro-gay Lasso, il candidato arrivato primo in Perù è un estremista di sinistra che vuole cambiare la Costituzione per nazionalizzare tutto il nazionalizzabile, ed è stato anche l’unico tra tutti i candidati a dire che secondo lui il Venezuela di Maduro è una democrazia. Però è anti-matrimonio omosessuale, anti-gender, anti-eutanasia, e anche anti-abortista. 51 anni, maestro elementare proveniente dal Perù rurale profondo Luis Castillo da giovane fu membro delle Rondas Campesinas che combattevano contro Sendero Luminoso, e in politica entrò nel partito centrista di Alejandro Toledo, “l’indio di Harvard”. Ma poi si è distinto soprattutto come leader di proteste sindacali durissime. Ignorato dei sondaggi, sta invece al 18,8 per cento secondo gli exit poll e al 16,34 secondo i primi dati scrutinati: con meno del 5 per cento a Lima, ma oltre il 50 per cento in certe aree rurali.  

 

Messi assieme, tutti i candidati di centro-destra e destra andrebbero ben oltre il 50 per cento. Ma lo spezzettamento è massimo, in un paese dove tutti i presidenti eletti dal 1986 in poi sono finiti in galera, tranne uno che per non finirci si è suicidato. E non solo è stato destituito in modo traumatico l’ultimo presidente eletto, ma anche il suo sostitituto, e poi il sostituto del sostituto. In questo quadro, secondo gli exit poll, per andare al ballottaggio a Keiko Fujimori la figlia del dittatore di origine giaponese potrebbe bastare il 14,4 per cento: contro 39,86 con cui era andata al secondo turno nel 2016 e il 23,55 con cui vi era pure andata nel 2011. Secondo i dati effettivamente scrutinati, invece, secondo col 13,43 sarebbe Hernando de Soto: l’economista e sociologo studioso del capitalismo informale, la cui candidatura pure è cresciuta a sorpresa negli ultimi giorni. 

 

“L’Evo Morales peruviano”, è stato ora ribattezzato Castillo. Ma all’Evo Morales vero, invece, questa “superdomenica” sarebbe andata malissimo, con dure sconfitte in tutti e quattro i dipartimenti al ballottaggio. Scrutinio ancora in corso, ma i suoi candidati perderebbero per il 39,1 contro il 60 per cento dell’avversario a La Paz, 40 per cento contro 59 a Tarija, 28,7 contro 71,3 a Chiquisaca, 40,6 contro 59,3 a Pando. Con i dati del primo turno del 7 marzo, sarebbero in tutto sei governatori dell’opposizione e solo tre per il partito di Morales. Insomma, a appena sei mesi dal suo ritorno, già l’elettorato si è stufato.   

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