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l'opportunita' nella crisi

C'è un “potenziale positivo” nella pandemia, ci dice Hernando de Soto

Maurizio Stefanini

Contro la carestia planetaria l’economista peruviano ha un’idea per gli imprenditori “informali”. Il suo scontro con Piketty

Roma. “Il potenziale positivo del coronavirus”, scrive Hernando de Soto, profeta del capitalismo informale con i suoi due bestseller “El otro sendero” e “El misterio del capital”. L’economista e sociologo peruviano ha scelto un titolo provocatorio per il primo di una serie di articoli in cui analizza le sfide poste dalla pandemia. “No hay mal que por bien no venga”, dice al Foglio citando un proverbio che in America Latina è molto popolare: non c’è male che per bene non venga. “Guy Ryder, direttore generale dell’Organizzazione internazionale del Lavoro – dice de Soto – ha appena spiegato che più della metà della popolazione mondiale è costituita da lavoratori informali. Sono cifre che non mi sorprendono, perché corrispondono più o meno ai dati che conosciamo in Perù. Si tratta di una massa di gente che sta in America Latina, in Africa, in Asia. Secondo cifre ufficiali, in India gli informali sarebbero addirittura il 90 per cento della popolazione. C’è però un equivoco di fondo. Sia l’Organizzazione internazionale del Lavoro sia i ministri del Lavoro sono entità che ragionano in termini di lavoratori dipendenti. La loro idea è dunque che gli informali siano disoccupati in cerca di un impiego e di uno stipendio. Secondo la mia analisi, questa è una distorsione un poco marxista di una realtà nella quale gli informali sono piuttosto piccoli imprenditori alla ricerca di una formalizzazione che consentirebbe loro di realizzare economie di scala. Adesso, in tempi di quarantena a livello mondiale, questi microimprenditori non possono realizzare guadagni per almeno due mesi. Il rischio è quello di una carestia planetaria, che può innescare gravi disordini. Per prevenirlo, bisogna finalmente affrontare il problema e trattarli da imprenditori. Non bisogna preoccuparsi di dar loro un lavoro: loro sanno meglio di tutti come ottenerlo. Ma bisogna poi riconoscerlo”.

 

Parlando del Perù in particolare, de Soto ha ricordato che il boom del telelavoro, del telestudio e delle teleconferenze rappresenta una grande occasione per un paese che esporta materie prime fondamentali per l’hardware: dal rame al litio. Ma in Perù queste risorse sono gestite – più ancora che da 200 mila dipendenti di grandi imprese formali – da 500 mila minatori artigianali, il cui lavoro è rallentato da ben 1.469 norme legali. “Esattamente – dice de Soto – 15 derivanti da decisioni del Tribunale Costituzionale, 10 dalla Corte Suprema, 590 da leggi e decreti legislativi, 680 da 15 decreti supremi, 98 da risoluzioni ministeriali, 72 da atti amministrativi”.

 

Non hanno però avuto problemi solo gli informali del terzo mondo, con il coronavirus. Un grido di dolore viene anche dai lavoratori autonomi del nord del mondo, che si sono battuti per una diminuzione della burocrazia. “Nel giro di giorni, al massimo di mesi, sarà il problema mondiale. Bisognerà capire che la globalizzazione finora non ha preso in considerazione certa gente. Poco fa mi ha chiamato un leader del settore informale peruviano, che organizza tra le 100 e le 200 mila persone. Mi ha detto, in forma provocatoria: ‘Bene, don Hernando. Adesso davanti al virus siamo tutti uguali’! Gli ho risposto: ‘Sì, possiamo morire tutti. Però alcuni morranno più facilmente di altri’. E lui allora: ‘E’ vero. Mai la nostra povertà è stata tanto marcata, perché per la maggioranza non ci sono posti letto in ospedale con un respiratore’”.

 

Bill Gates prevede che il problema verrà dal Global South, il sud globale, come iniziano a chiamarlo negli Stati Uniti. Lo chiamavamo terzo mondo, appunto. Il problema va affrontato, e non si potrà fare con i sussidi dello stato, perché i pil sono destinati a cadere. “Però telelavoro, telemedicina e teleconferenza fanno intravedere un boom tecnologico, che ci rimanda agli Stati Uniti degli anni Trenta. Il boom del New Deal – dice de Soto – Dopo la Prima guerra mondiale, la pandemia di Spagnola e la grande crisi del 1929, la ripresa fu dovuta, più ancora che alla spesa pubblica, al grande balzo nell’impiego delle tecnologie. In particolare, l’applicazione della elettricità alla manifattura e la utilizzazione di motori a combustione interna per dare impulso alla fabbricazione di veicoli. E’ la riprova che una crisi può accelerare lo sviluppo economico, tecnologico e sociale”.

 

La crisi come opportunità. “Una opportunità per ridefinire la situazione delle classi nel mondo e trovare una nuova sintesi, per far sì che la globalizzazione non sia solo una cosa che ha migliorato la qualità della vita del 40 per cento del mondo e che lascia il 60 per cento al margine”. La proposta storica di de Soto è non solo togliere di mezzo quanti più lacci e lacciuoli che soffocano la piccola imprenditoria, ma al contempo rilasciare titoli di proprietà sui beni informali in modo da permettere di offrirli in garanzia di finanziamento per capitalizzare le piccole imprese e permettere loro il salto di scala. Insiste dunque che ancor più dopo questa crisi ci sarà bisogno di formalizzazione. “In Perù per costruire una casa in una baraccopoli ci vogliono 18 tramiti in più che per costruire nel settore formale. Per questo bisogna formalizzare. Una microimpresa che non ha responsabilità limitata, ad esempio, espone il titolare a giocarsi sempre il suo futuro. Ogni volta che firma un contratto, è come se si sedesse a un tavolo da poker. Non ha poi la possibilità di aver azionisti. Non può far ereditare il nome. Non può formare capitale. Se non si ha la possibilità di utilizzare un titolo di proprietà come garanzia in una banca, resta solo il microcredito, che appunto è micro. Muhammad Yunus protegge le vedove: va benissimo, ma non basta. Per arrivare da un garage a Microsoft, ci vuole la possibilità di fare grande scala. Ciò su cui sono d’accordo Karl Marx e Adam Smith”.

 

La rivalutazione di Marx ci fa sobbalzare. “La cosa interessante del marxismo – dice de Soto – è la capacità di dar conto del fatto che la società è segmentata in distinti interessi oggettivi e percezioni soggettive. Capiamo dunque che c’è una sottoclasse, che non è comunista, ma composta da piccoli imprenditori. Non sono proletariato, sono piccola imprenditoria con pochi strumenti. Questa sottoclasse non sa come difendersi di fronte a un virus, e al principio si è preoccupata per la propria salute. In tempi brevissimi, però, il suo problema non sarà la salute fisica, ma la salute economica. Sono ottimista, perché credo che l’emergenza permetterà al Global South di disfarsi di una serie di ostacoli all’impresa che sono stati attribuiti alla cultura, e derivano invece da istituzioni cattive o insufficienti. Democrazie che sono solo sistemi elettorali, mercati di capitali nei quali possono entrare solo in pochi, trattati di libero commercio che servono solo ai grandi. Nel momento in cui daremo loro gli strumenti, vedremo queste piccole imprese decollare”.

 

De Soto da un po’ di tempo si è messo a contestare le tesi dell’economista francese Thomas Piketty. “Piketty è una persona ben intenzionata, ma gli manca la sofisticazione. Parla di fallimento sociale del capitalismo per via di quella che percepisce come una sproporzione tra la remunerazione del capitale e la remunerazione di altri fattori di produzione, ma senza guardare ai mercati dei capitali, e senza misurare che il capitale non è necessariamente denaro. Il capitale non è una classe sociale. Il capitale è il risultato di molti meccanismi che sono necessari per organizzare il valore. Del denaro utilizzato per l’intercambio negli Stati Uniti, solo il 4 per cento è prodotto direttamente dalla Fed. Il resto è generato dall’impresa bancaria. E’ il capitale che già Thomas Jefferson definiva ‘fittizio’: sono documenti che non riflettono un valore reale. Piketty dice che siccome il capitale è una cosa cattiva deve essere distrutto. Tipicamente vetero-marxista. In realtà, la soluzione a certi problemi non è sfasciare il meccanismo di formazione del capitale, ma consentirne l’accesso a tutti. Secondo me Piketty è un grande romantico: ma un romantico pericoloso, suo malgrado. La gente spesso non si rende conto che a essere sconfitto non è stato il marxismo, ma il comunismo. Il marxismo resta attrattivo, come modo di pensare le cose per identificare le ingiustizie. Io non temo il ritorno del comunismo, ma temo un ritorno ad argomenti che diano a dittatori il pretesto per avere uno stato eccessivamente forte e una classe burocratica eccessivamente invadente”.

 

Ma si riuscirà a far funzionare capitalismo e globalizzazione a vantaggio di tutti, anche con la spinta di questa crisi? “Quando guardo ai miei informali in Perù, vedo una classe che sta cercando di entrare. Potranno essere loro il capitalismo del futuro o il marxismo del futuro. Secondo me la risposta è nel dare alla microimpresa la possibilità di non essere più nana. In realtà, non sappiamo bene come ne usciremo, ma sappiamo in compenso che viviamo in tempi interessanti. Pensavo che avrei avuto davanti a me una vecchiaia noiosa. Adesso mi accorgo che sarà sì vecchiaia, ma certo non noiosa”.

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