Hernando de Soto, nella foto alcuni anni fa a Cernobbio, è stato fra l'altro consigliere del presidente Fujimori (Foto Imagoeconomica)

I capitali profondi secondo Hernando de Soto

Maurizio Stefanini

Le risorse da sfruttare (perché non sono affatto finite), le grandi Borse per grandi progetti. Parla il guru dell’altra economia

“Deep Capital”, capitale profondo: così si intitolerà il suo prossimo libro, spiega Hernando de Soto al Foglio praticamente in anteprima mondiale. Ci avverte che forse non sarà il titolo definitivo. “La mia esperienza è che il primo titolo da me posto a un libro quando incomincio a scriverlo non è mai il titolo finale”. Però è sicuro che tratterà di temi come il blockchain e la miniera informale. Nel 1986 l’economista peruviano divenne famoso in tutto il mondo per il suo primo bestseller, “El otro sendero”, in cui descriveva il capitalismo popolare di tanti piccoli imprenditori informali come la via per lo sviluppo del Terzo mondo: un “altro sentiero” rispetto alla sanguinaria utopia terrorista che allora imperversava in Perù col nome di Sendero Luminoso. Nel 2000 l’altro bestseller “El misterio del capital” aggiungeva alla constatazione una proposta: proprio la formalizzazione degli immensi asset informali creati dai poveri di tutto il mondo in particolare in quelle zone variamente definite come bidonville, baraccopoli, favelas o simili – ma non solo – avrebbe potuto rappresentare una spinta risolutiva per capitalizzare questa spinta imprenditoriale dal basso. Come spiegava, negli Stati Uniti ipotecare la propria casa è il tipico strumento cui ricorre chi vuole trovare un finanziamento per iniziare una piccola impresa in proprio. Ma per farlo bisogna che quella casa sia registrata.

 

De Soto ha continuato a lavorare al tema, ad esempio attraverso una Property Rights Alliance che ogni anno pubblica un International Property Rights Index per fare il punto sulla situazione mondiale dei diritti di proprietà e proprietà internazionale. Come spiega però al Foglio, quel problema non è stato ancora del tutto risolto. “Molti politici hanno provato a raccogliere il mio messaggio, secondo cui la gente povera nella sua maggioranza aveva creato un mondo non di piccoli proletari, ma un mondo pieno di imprese con un potenziale per andare avanti se si produceva la riforma per permettere loro di farlo. In America Latina penso ad esempio al presidente Vicente Fox in Messico o al presidente Alberto Fujimori in Perù. In Africa ai governi dell’African National Congress. Pur riconoscendo l’importanza di far rivivere il capitale hanno avuto però un successo solo relativo. Non sono riusciti veramente a liberare l’energia e realizzare il potenziale che avevano queste classi.

 

 

 

Il fatto è che gran parte di queste misure sono state prese da partiti e politici che venivano dalla sinistra. Hanno dunque preso sì misure per attribuire titoli di proprietà, ma non hanno fatto un passo successivo che è egualmente importante: lasciare che poi questi asset siano liberi di muoversi. Uno di coloro che sembrò in principio più raccogliere il mio messaggio fu ad esempio Hugo Chávez: probabilmente il più grande titolatore di asset in America latina. Mi chiamò molto, all’inizio del suo governo. Ma non basta dare asset, se poi non dài la libertà di venderli e comprarli. Cioè, di utilizzarli per dare garanzie e ottenerne liquidità. La stessa Banca Mondiale ha preso uno dei miei programmi che si chiama Doing Business e lo ha portato solo fino a un certo punto: levando i vincoli che si riferiscono alla proprietà ma non quelli che si riferiscono a come si utilizza la proprietà per creare il capitale indispensabile per finanziare il commercio. Anche a destra peraltro ci sono stati politici e governi che hanno cercato di raccogliere il mio messaggio. Ma la destra tradizionale in America latina ha i propri pregiudizi spesso razzisti, secondo cui le classi inferiori non possano andare avanti se non sono sufficientemente educate. Non sono come le Camere di commercio degli Stati Uniti, il cui obiettivo è creare impresa per tutti in qualunque modo sia”.

 

“Deep Capital” sarà il prossimo libro dell’economista peruviano che nell’86 ha indicato una via per lo sviluppo del Terzo mondo 

Insomma, in America latina si dà la proprietà ma non la libertà economica, a sinistra per pregiudizio ideologico anticapitalista e a destra per pregiudizio classista o razzista… “E’ facile accettare l’argomento di dare asset, da entrambe le parti. Ma se pure non è l’individuo contro il connettivo, il libero mercato richiede connettivi con strumenti diversi che non i connettivi di tipo socialista. Il grande connettivo del libero mercato è l’impresa a responsabilità limitata e a successione perpetua. Un’impresa che sopravvive alla morte di chi l’ha creata, perché è padrona dei suoi benefici e dei suoi debiti. Purtroppo il 95 per cento delle imprese in America latina non ha la successione perpetua. Muore con il suo fondatore. E senza responsabilità limitata, senza la possibilità di emettere azioni per compartire la proprietà, il povero non può sedere al tavolo da poker del mercato. Ma, appunto, i politici non vogliono che i poveri siedano al tavolo da poker, perché dicono che ne verrebbero distrutti. In America latina c’è l’idea che i poveri possono essere ammessi al mondo dell’impresa nell’ambito di uno spazio speciale. Non è come in Asia”.

 

Quindi lei propone un modello asiatico… “In realtà in Africa e in America latina non ne esistono le condizioni. Grandi leader innovatori come Deng Xiaoping in Cina o Lee Kuan Yew a Singapore per imporre le proprie riforme hanno potuto approfittare di un quadro autoritario che qui non c’è. In un quadro di libertà politica bisogna approfittare delle crisi per creare opportunità. Penso a quello che sta succedendo in Messico, a quello che sta succedendo in Brasile, a quello che sta succedendo in Venezuela. Se il Venezuela finalmente volta pagina, è importante che il nuovo regime non si metta a restituire tutte le proprietà a coloro che erano ricchi anteriormente, se no si resuscitano i Chávez e i Maduro. La distribuzione della proprietà ci ha permesso di evitare sanguinose rivoluzioni, ma per una serie di ostacoli che non sono stati rimossi non abbiamo tutti lo stesso accesso al mercato. Io credo che basicamente non si sono ben compresi quelli che sono i veri strumenti del capitalismo e dell’impresa privata”.

   

Il primo messaggio: “La gente povera ha creato un mondo non di piccoli proletari, ma di imprese con un potenziale per andare avanti” 

Quali sarebbero questi strumenti, in particolare? “Il diritto non solo a rendersi padroni di asset ma di poterli combinare e maneggiare. Alexis de Tocqueville disse tra le altre cose che gli Stati Uniti sarebbero stati il paese del futuro perché aveva la più importante delle conoscenze: la conoscenza del combinare. Tutto al mondo viene da combinazioni. E’ come se un gigantesco Coniglietto pasquale si fosse divertito a nascondere le cose di cui abbiamo bisogno nei luoghi più dimenticati possibile. L’umanità per conto suo ha creato le regole perché possiamo combinarle e creare in maniera produttiva: Karl Marx diceva che una locomotiva ha 5.000 componenti, il mio orologio svizzero ne ha 120. Dal mio orologio alle navi in cui navigava Amerigo Vespucci, tutto è il risultato di combinazioni complesse. Bisogna dunque avere il diritto a dividere o individuare connettivamente. A combinare in grande scala. Alla responsabilità limitata per evitare di liquidare la totalità e controllare il rischio. A dividere in azioni per ripartire benefici e rischi. A intercambiare azioni per investimento garantendo la successione perpetua. Per i poveri dei paesi in via di sviluppo ciò non è semplicemente possibile. Possiamo calcolare che su 7,5 miliardi di abitanti del mondo, solo 2,5 hanno accesso agli strumenti della globalizzazione. Non più di uno su tre”.

  

 

Non ci sono però solo i paesi in via di sviluppo. Il successo di Piketty da una parte, le vittorie elettorali dei partiti populisti dall’altra, dimostrano come un certo disagio stia crescendo anche nel mondo sviluppato. “Io sono uno studioso dei paesi in via di sviluppo. Preferirei non opinare troppo su realtà differenti da quelle che ho studiato. Posso solo osservare come dura ancora quella crisi iniziata nel 2008 per via di banche che avevano emesso una enorme quantità di titoli e denaro senza valore. Invece di punirle gli stati le hanno salvate, e ciò crea inevitabilmente risentimenti. Quanto a Piketty, secondo lui tutto ciò che va verso la possibilità di accumulare capitale, che significa la libertà di transazioni attraverso le frontiere e che va senza la supervisione dello stato, porta a un abuso dei potenti sui più piccoli. Chiede dunque che lo stato abbia un ruolo per proteggere i vari Jean Valjean e Oliver Twist d’Europa. Non mi sembra che il suo messaggio possa interessare il Terzo mondo. Negli Stati Uniti, è venuto di moda nel momento in cui sembrava preferita per la presidenza Hillary Clinton. Ma invece è stato eletto Trump”.

 

A proposito di Trump. “Mercantilisimo” è la dottrina economica che era prevalente tra ’500 e ’700, e che secondo la sua analisi ancora domina la mentalità latino-americana, ostacolando la rivoluzione capitalista. Lei ha detto che il vero nemico di Trump è il mercantilismo e non il globalismo… “Lo ho detto al principio, ma poi ho un po’ rivisto il mio giudizio, anche perché ho avuto modo di interloquire con vari esponenti dell’Amministrazione Trump ai massimi livelli. Mi sono accorto che loro in realtà non sono contro la globalizzazione. Trump non dice “anti-globalization”, ma “anti-globalism”. C’è una differenza. Il globalismo è una filosofia, una ideologia. Globalismo come liberalismo o comunismo. Da quello che capisco, lui intende dire che bisogna smetterla di cercare di risolvere i problemi del mondo per consenso globale.

  

“Bisogna avere il diritto di combinare in grande scala, a scambiare azioni: per i poveri dei paesi in via di sviluppo non è possibile”

Se gli Stati Uniti hanno un problema con la Corea del Nord, pensare di riunirsi all’infinito con svedesi, svizzeri, inglesi, italiani non serve a niente. Già è complicato mettere d’accordo democratici e repubblicani: figuriamoci le varie nazioni del mondo! Ma se invece ricordo al governo della Corea del Nord che ho un bottone rosso nucleare molto più potente e poi inizio a conversare, vediamo come loro smettono di lanciare missili che potrebbero raggiungere l’Alaska o la California! Una volta come peruviano potevo criticare il presidente degli Stati Uniti, perché era anche il presidente del Mondo libero. Ma Trump ha in pratica dato le dimissioni da presidente del Mondo libero, perché il Mondo libero non ha gli strumenti organizzativi per affrontare i pericoli di oggi”.

 

A proposto del mondo di oggi, lei di recente si è molto occupato del fenomeno blockchain… “E’ stato osservato come una caratteristica della rivoluzione capitalistica è il ritardo legale. La legge sta sempre vari chilometri dietro alla realtà, e un regime liberale permette di fare cose prima che si sappia se sono buone. La legge è ex post, non ex ante. Il bitcoin ne è un classico esempio, col modo in cui ha creato fortune prima che la legge se ne accorgesse. Però nel blockchain ci sono molti aspetti che hanno a che vedere col registro della proprietà. Il blockchain al fondo non è altra cosa che un sistema di registro di beni e transazioni. Per il mio obiettivo di assicurare gli asset che hanno i poveri e dare loro maggior partecipazione, ha aspetti che mi sembrano molto utili.

 

Ma, ad esempio, il blockchain ha come caratteristica il fatto che si facciano transazioni peer to peer. Facciamo una transazione, e nessun altro deve saperlo, salvo che sia necessario individuare una frode. Ma nei paesi poveri questo è anatema. I poveri non vogliono discrezione, ma pubblicità. Come i ricchi dei secoli XVII, XVIII o XIX, se possiedono un palazzo, vogliono che tutti lo sappiano! E poi il blokchain può essere utilizzato per emettere una moneta come il bitcoin, che è molto controversa. Gran parte di quel che ha che fare col blockchain riguarda una sorta di setta di anarco-capitalisti fanatici che vogliono distruggere la moneta creata dallo stato. Oddio, magai alla lunga potrebbe essere perfino una buona cosa! Effettivamente gli stati hanno spesso manipolato la moneta in modi discutibili”.

  

E recentemente si è occupato molto anche di miniera informale. È un tema in questo momento di grande attualità, con il reportage di Reuters sui minatori informali che in Venezuela estraggono l’oro da cui Maduro trae le ultime risorse per sostenere il suo regime. Un settore attinente a una materialità che è sembra l’opposto rispetto all’immaterialità del blockchain… “Ma anche lì c’è di mezzo un problema di diritti di proprietà. Salvo che in alcune zone degli Stati Uniti, in tutto il mondo prevale un regime risalente al Diritto romano secondo cui il sottosuolo è dello stato ma la superficie può appartenere ai privati. Alcuni di questi proprietari dunque si mettono a estrarre loro direttamente, grattando la superficie.

  

Più spesso si crea la situazione per cui lo stato cede la concessione per estrarre dal sottosuolo a grandi compagnie, che però vengono ostacolate dai proprietari della superficie. In genere popolazioni poverissimi e politicizzate, che comunque si oppongono alle grandi compagnie, chiedendo compensi maggiori del semplice valore agricolo. E’ come se lo stato vendesse il vino e il vetro di una bottiglia di cui il tappo è proprietà di qualcun altro. In Perù ci sono 800 miliardi di dollari di riserve provate di minerale che potrebbero trasformarci in un paese ricco ma non vengono estratte a motivo di questo contrasto. Nel mondo si tratta di 150 trilioni di dollari. L’Isis si è affermato anche garantendo la proprietà dei poveri sulla superficie di zone ricche di petrolio”.

  

I nuovi problemi di proprietà posti da blockchain e miniera informale le hanno dunque suggerito di fare questo nuovo libro sul capitale profondo? “La cosa è che per risolvere questo problemi ho elaborato una serie di metodologie che ho poi venduto a a Silicon Valley. Nel far ciò avevo sviluppato una gran quantità di slides su Power Point, di cui a un certo punto ho compreso che potevano diventare un libro. Ormai ci sto lavorando già da sei mesi. L’idea è che le risorse del mondo non sono affatto finite, se si trova il modo di utilizzarle. Deep Capital perché è quando si organizzano le grandi Borse a cui hanno accesso tutti o la gran parte della popolazione che sono possibili i grandi progetti minerari, petroliferi e di infrastrutture”.

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