Nelle mani di Pascal Soriot

Micol Flammini

Il rapporto tra AstraZeneca e l’Unione europea si è rotto in fretta. Le ambiguità del ceo “lottatore”

Roma. Il rapporto tra Unione europea e AstraZeneca era iniziato a occhi chiusi. Con la fiducia che richiedeva il momento, storico e sanitario, Bruxelles aveva deciso di investire nella società farmaceutica che prometteva un vaccino meno costoso e  più facile da conservare. Alla firma del contratto con la società  per l’acquisto di 300 milioni di dosi in agosto, l’Ue ha pagato in anticipo 336 milioni di euro per completare lo sviluppo del vaccino e iniziarne la produzione, assumendosi il rischio in caso di mancata autorizzazione da parte dell’Ema. Tutti credevano che AstraZeneca sarebbe stato anche il primo vaccino a essere approvato, già a ottobre. L’Ue non si sarebbe potuta aspettare non soltanto che l’Agenzia europea per i medicinali avrebbe atteso fino a gennaio per l’approvazione – non è stata l’Ema a essere lenta ma era AstraZeneca a  presentare tardi la domanda – ma neppure che la prima mossa della multinazionale sarebbe stata quella di annunciare un taglio del 60 per cento delle forniture nel primo trimestre. Era gennaio, e anche Pfizer-BioNTech aveva annunciato un rallentamento, ma la Commissione aveva da subito iniziato a trattare le due situazioni in modo molto diverso. 

 

Con il gruppo americano si arrivò  a un compromesso, anche grazie alla disponibilità del ceo Albert Bourla, con AstraZeneca invece le cose iniziarono a complicarsi, anche a causa delle dichiarazioni del ceo Pascal Soriot. In un’intervista a Repubblica l’amministratore delegato della multinazionale anglo-svedese disse che l’Ue era stata più lenta del Regno Unito a firmare il contratto, che le catene di produzione erano separate e che  c’era la clausola del “best effort” che non vincola AstraZeneca sulle consegne. Soriot è stato smentito in fretta, la Commissione si è  decisa a pubblicare il contratto: non era vero che Londra era stata più rapida di Bruxelles e il “best effort” era presente tanto nell’accordo britannico quanto in quello europeo. Da lì sono iniziati i sospetti della Commissione che AstraZeneca avesse esportato nel Regno Unito dosi che spettavano all’Ue. Soriot aveva detto che il taglio era dovuto a problemi di rendimento in un impianto di produzione in Belgio, a Seneffe. Ma la multinazionale che lo gestisce, l’americana Thermo Fisher, aveva smentito anche questo punto: “Abbiamo rispettato tutti gli obblighi contrattuali”.

 

La Commissione ha deciso di andare avanti nel rapporto con AstraZeneca. Ma a febbraio altri guai: Reuters ha fatto sapere che la multinazionale avrebbe tagliato di oltre il 50 per cento le forniture per il secondo trimestre. AstraZeneca ha mandato un comunicato per smentire – “stiamo lavorando per aumentare la produttività” – ma il rapporto di fiducia si era già  incrinato e le parole non sono bastate per far stare tranquilla Bruxelles.

 

Tanta dell’inquietudine si deve proprio a Soriot, l’amministratore delegato che al Parlamento europeo un deputato ha definito “una saponetta che ci sfugge”. L’atteggiamento del ceo di AstraZeneca si è spesso dimostrato ambiguo con l’Ue. Soriot nella multinazionale gode di una fiducia altissima: dopo diciotto mesi che era a capo dell’azienda si oppose al tentativo di Pfizer di rilevarla. Dovette convincere gli investitori che  la società era al sicuro, che avrebbero dovuto resistere insieme a lui, l’uomo giusto per ridare vita ad AstraZeneca. Gli credettero, ma dovettero aspettare anni prima di capire che avevano fatto bene e prima che il Financial Times titolasse: “L’ex combattente di strada che ha dato un senso alla sua azienda”. Parigino di banlieue, al quotidiano britannico ha raccontato di aver raccolto una società sfiduciata piena di lavoratori ottimi ma che avevano perso i loro obiettivi. Era il 2012 quando il veterinario  arrivò ad AstraZeneca, e nel presentarsi raccontò subito del suo passato: quello di lottatore. Gli credettero, si affidarono, rifiutarono l’offerta di Pfizer. Fu questione di fiducia, la stessa che invece manca nel rapporto  con gli europei. Un rapporto nato storto e che adesso sta spingendo le capitali dell’Ue a chiedere di aumentare sempre più le forniture degli altri vaccini, Moderna e Pfizer, il gigante americano che Soriot pensava di aver sconfitto anni fa. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.