Euporn - il lato sexy dell'europa

Perché ci siamo ritrovati a guardare storto AstraZeneca

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Le forniture ridotte, le accuse di Francia e Germania, le bugie e la tentazione di trovare un alibi per i ritardi (nelle somministrazioni, non nelle dosi)

I guai con AstraZeneca per l’Unione europea non sembrano finire mai. Martedì sera c’è stato un allarme generale a Bruxelles e nelle capitali quando Reuters, citando una fonte dell’Ue, ha battuto la notizia che AstraZeneca avrebbe tagliato di oltre il 50 per cento le forniture di dosi previste per il secondo trimestre dell’anno. Ieri la società ha pubblicato un comunicato per smentire, ma non del tutto: “AstraZeneca sta lavorando per aumentare la produttività nella sua catena di approvvigionamento nell’Ue e continua a fare uso delle sue capacità globali al fine di realizzare la consegna di 180 milioni di dosi all’Ue nel secondo trimestre”. Se le relazioni commerciali e diplomatiche sono come quelle personali, le parole di AstraZeneca non sembrano sufficienti: nessuno in Europa si fida più di AstraZeneca, e questa sfiducia è ancora più grave se si pensa che il suo vaccino era considerato quello di massa, facile da conservare, facile da utilizzare, meno costoso rispetto ad altri. Nemmeno la notizia dell’approvazione in America del vaccino Johnson & Johnson (quello meglio noto come: una dose sola) ha dato sollievo. Perché AstraZeneca era anche il primo vaccino con cui era stato firmato un accordo anticipato d’acquisto. A ottobre 2020 tutti erano convinti che sarebbe stato anche il primo a ottenere l’autorizzazione dall’Agenzia europea dei medicinali (Ema). Insomma, il vaccino di AstraZeneca era il prescelto. Poi molte cose sono andate storte. Ora in molti dentro la Commissione e in alcune capitali hanno l’impressione di un grande raggiro ai danni dell’Ue, anche se nessuno vuole rispondere con cause legali perché l’obiettivo resta, in salute e in malattia come si dice, quello di procurarsi il maggior numero di dosi possibili.

 


AstraZeneca  era la prima scelta, il primo su cui si è investito quando ancora c’era il rischio che non fosse il vaccino giusto



 

Una storia andata storta. AstraZeneca è una grande multinazionale farmaceutica, con doppia bandiera britannica e svedese, che si è subito lanciata nella corsa al vaccino firmando un accordo nell’aprile 2020 con l’Università di Oxford, le cui ricerche erano già avanzate. Unica condizione posta da Oxford: non fare profitti fino a quando la pandemia è in corso. AstraZeneca ha accettato, scommettendo sulla necessità di vaccinazioni periodiche come l’influenza. Il Regno Unito ha firmato una prima intesa con AstraZeneca a maggio. L’Alleanza (europea) per i vaccini (Germania, Francia, Italia e Paesi Bassi) ha fatto altrettanto a giugno. Il dossier è poi passato alla Commissione a luglio. I negoziati si sono conclusi rapidamente con la firma per l’acquisto di 300 milioni di dosi il 27 agosto. La Commissione ha anticipato 336 milioni di euro per finanziare la produzione, assumendosi il rischio in caso di mancata autorizzazione da parte dell’Ema. L’obiettivo era trovarsi pronti  a lanciare le campagne di vaccinazioni, con le riserve di dosi al momento del via libera. L’accordo di acquisto anticipato prevedeva 120 milioni di dosi nel primo trimestre del 2021. La prima brutta notizia è arrivata a inizio dicembre, quando in una riunione con la Commissione e gli stati membri AstraZeneca ha annunciato l’impossibilità di rispettare gli impegni e un primo taglio delle forniture a 80 milioni di dosi per il primo trimestre. Pochi giorni dopo, a fine dicembre, si è presentato un nuovo problema. Mentre il Regno Unito approvava il suo vaccino con una procedura d’urgenza, AstraZeneca non presentava domanda di autorizzazione all’Ema: ha aspettato fino il 12 gennaio, dopo le pressioni di alcuni governi dell’Ue sulla società farmaceutica. Fino a quel momento tuttavia tutto rientrava nei problemi considerati normali nella produzione di milioni di dosi di un vaccino realizzato a tempo di record. La crisi tra AstraZeneca e l’Ue è scoppiata il 22 gennaio, una settimana prima della riunione dell’Ema per decidere l’autorizzazione. Quel giorno, in modo del tutto inaspettato, la società farmaceutica ha annunciato alla Commissione e agli stati membri un altro taglio delle forniture: non più 120 milioni di dosi come inizialmente concordato, non più 80 milioni come previsto a dicembre, ma 31 milioni di dosi. La causa ufficiale: problemi di rendimento (“yield”) in un impianto di produzione a Seneffe, in Belgio. A portare sull’orlo di una guerra è stata poi un’intervista a Repubblica, con cui l’amministratore delegato Pascal Soriot si è giustificato sostenendo che l’Ue era stata più lenta del Regno Unito a firmare il contratto, che le catene di produzione erano separate e che una clausola di “best effort” non vincolava AstraZeneca sulle consegne. Molto di quello che ha detto Soriot è stato smentito dalla Commissione e dalla pubblicazione dei contratti. Londra ha firmato dopo la Commissione. La clausola di “best effort” c’è anche nel contratto britannico. La catena di approvvigionamento per l’Ue prevede impianti nel Regno Unito e viceversa. La Commissione ha iniziato a sospettare che AstraZeneca avesse esportato dosi europee oltre Manica (e ha approvato nel panico un meccanismo di controllo delle esportazioni). Nel frattempo, la multinazionale americana Thermo Fisher, che gestisce l’impianto di Seneffe in Belgio, ha spiegato di aver rispettato “tutti i suoi obblighi contrattuali nei confronti di AstraZeneca”, lasciando intendere che il problema non è lo “yield”.

 

Puntare su un altro princìpio. La Commissione non ha voluto portare AstraZeneca in tribunale perché il suo obiettivo rimane quello di ottenere il maggior numero di dosi possibili. A inizio febbraio Ursula von der Leyen ha potuto annunciare di aver recuperato nove milioni di dosi per il primo trimestre. Ma l’incertezza continua a prevalere per le forniture del secondo trimestre: 180 o 90 milioni? Nel frattempo, la Commissione e diversi paesi hanno deciso di puntare su altri produttori, in particolare sui rivoluzionari vaccini rMna. L’Ue ha firmato un secondo contratto con Pfizer-BioNTech e Moderna, entrambi per 300 milioni di dosi aggiuntive. Un gruppo di cinque paesi (Belgio, Danimarca, Lituania, Polonia e Spagna) ha proposto di aumentare le capacità di produzione in Europa, in particolare per i vaccini rMna. L’idea sarà discussa nel vertice dei capi di stato e di governo questo pomeriggio. “Questi nuovi vaccini serviranno per le nuove varianti e nel caso di vaccinazioni annuali come quelle per l’influenza”, ci ha detto un diplomatico europeo. AstraZeneca, che potrà vendere il suo vaccino facendo profitti una volta terminata la pandemia, rischia così di uscirne come il grande perdente.

 


L’Ue non  vuole rispondere con cause legali perché l’obiettivo resta procurarsi il maggior numero di dosi possibili


 

Sfiducia corrisposta /1. “Il vaccino di AstraZeneca è sicuro e grandemente efficace. Il vaccino può salvare delle vite”, ha twittato questa settimana Steffen Seibert, portavoce della Merkel. La Germania, nel mezzo della “terza ondata”, come ha detto la cancelliera, ha un problema con AstraZeneca, alimentata dallo stesso governo, in particolare dal ministro per la Salute, Jens Spahn, e ora è costretta a fare una campagna di rassicurazione che suona come un’autosmentita. Entro la settimana scorsa, il piano vaccinale tedesco prevedeva la somministrazione di 1,5 milioni di dosi del vaccino di AstraZeneca. Secondo l’Istituto Koch, ne sono state somministrate 187 mila. Al terminal C dell’aeroporto di Tegel, chiuso dal novembre scorso, è stato allestito un centro di vaccinazione in cui si somministra soltanto AstraZeneca. Le guardie hanno detto alla Dw che ogni ora arrivano al massimo tre, cinque persone, “nient’altro”. I tedeschi sono convinti che questo vaccino sia meno efficace rispetto a quello Pfizer-BionTech, e il governo ha contribuito a questa perplessità, così come alcuni giornali (non viene somministrato agli over 65, perché è una fascia d’età in cui, secondo le autorità tedesche, questo vaccino non è sicuro come dovrebbe). Ora che la campagna di vaccinazione non va veloce, non quanto quella di altri big, come il Regno Unito o la stessa America, il ministro Spahn è dovuto correre ai ripari e, ha scritto lo Spiegel, ha chiesto che polizia ed esercito vengano vaccinati con AstraZeneca e che siano creati centri vaccinali apposta, amministrati dall’esercito, a Bonn e a Berlino. E’ intervenuta anche Angela Merkel per dire che è un vaccino affidabile, ma non per lei, perché ha più di 65 anni. A ristabilire la fiducia, tedesca ed europea nei confronti del vaccino  è arrivata anche von der Leyen. Ha detto al quotidiano tedesco Augsburger Allgemeine che lei farebbe “AstraZeneca senza pensarci due volte, proprio come i prodotti di Moderna e Pfizer-BioNTech”.    

 

Sfiducia corrisposta /2. In Francia, dove ancora ci si lecca le ferite perché il vaccino nazionale, Sanofi, si è impantanato in modo spettacolare, il rapporto con AstraZeneca è altrettanto conflittuale. Il governo di Emmanuel Macron non soltanto  è stato molto duro sui ritardi di fornitura, ma ha anche insistito, proprio come Spahn, sulla possibile inefficacia del vaccino, sconsigliato per gli over 65. In generale la Francia, che è stata fin da subito più lenta nella sua campagna di vaccinazione, ha cercato di trovare altrove le cause del proprio ritardo: AstraZeneca è un capro espiatorio perfetto. Ma con Macron l’azienda, anzi sarebbe meglio dire il governo britannico (questo è il vaccino cosiddetto inglese), è stata durissima. Complice una nuova, acida rivalità tra le due sponde della Manica che ha molto a che fare con la Brexit (che sulle due coste non è più un dibattito ideologico o culturale: è vita quotidiana), gli scambi sono stati feroci. Soltanto ieri un sito vicino al governo di Boris Johnson, ConservativeHome, ha pubblicato un articolo che fin dal titolo diceva: Macron ha voluto politicizzare la faccenda dei vaccini, e ora la gente muore.  

 


In Germania c’è un problema di fiducia e le rassicurazioni del governo su AstraZeneca suonano come delle autosmentite


 

Fiducia europeista. Costruire un’unione sempre più larga di paesi che condividono un sistema di valori comuni è uno degli obiettivi dell’Ue, uno di quelli originari. La voglia di integrazione, l’entusiasmo per questo contagio di valori democratici si è  smorzato negli ultimi anni, ma ci sono zone in cui l’Unione sa che deve mantenere alta la sua presenza, con collaborazione e influenza. Ora tra le mani ha anche uno strumento, una leva per creare e stringere quella comunità: i vaccini. I Balcani, per esempio, sono al centro di una corsa, russi e cinesi si sono affrettati a proporre i loro vaccini per aumentare l’influenza nella zona, da sempre contesa. La Serbia ha risposto in modo positivo, sta portando avanti una campagna di immunizzazione con vaccini di Mosca e Pechino, si spertica in elogi nei confronti di Russia e Cina e di improperi nei confronti dell’Ue. Ma è nella natura di Belgrado tenersi aperte molte porte. Non tutti paesi dei Balcani occidentali la pensano così, come l’Albania, altro stato che vorrebbe entrare a far parte dell’Ue, e non prende neppure in considerazione l’idea di ricorrere a Mosca e Pechino. “Questa è una lotta e noi abbiamo chiaro da che parte vogliamo stare”, ci ha detto Bardh Spahia, medico ed ex viceministro della Salute, oggi all’opposizione. “Vogliamo stare a fianco dei nostri alleati strategici che sono i paesi occidentali e l’Ue, l’Albania ha sempre avuto questa vocazione”.  Dice Spahia che i Balcani occidentali non possono essere lasciati fuori da una campagna di vaccinazione efficiente, perché sarebbe  un rischio per tutto il continente europeo, che è molto interconnesso e “il futuro europeo della zona è molto in bilico con Russia e Cina che si affrettano ad assistere la regione. L’Ue può trasformare questa sfida, ribaltarla. Le conseguenze di un fallimento dei piani di vaccinazione nei Balcani potrebbe avere un grande impatto sul futuro della regione”. Il governo albanese, dice Spahia, si sta muovendo in modo poco trasparente ed è anche poco chiaro nel coordinarsi con l’Europa. Ha detto di aver ricevuto un numero simbolico di dosi da un paese Ue, ma non ha voluto rivelare quale, per Spahia questo è il sintomo della mancanza di trasparenza. “L’Albania è stata molto contenta della proposta dell’Ue di stanziare 70 milioni di euro per la vaccinazione del blocco, l’Ue è anche tra i maggiori contribuenti di Covax, ma questi aiuti non basteranno. Il rischio è che i Balcani finiscano le vaccinazioni in ritardo, compromettendo l’immunità del continente. Quello che serve è maggior collaborazione tecnica e scientifica”.  

 

Il modello danese. In Ue c’è una piccolissima Israele che nelle vaccinazioni va veloce. E’ la Danimarca che guida la classifica dei paesi europei per il numero di immunizzazioni: 8,82 ogni cento abitanti. Vien da domandarsi come sia possibile, se tutti gli europei hanno ricevuto lo stesso numero di dosi per numero di abitanti. Ma la questione si spiega con tre parole: preferenze, rimanenze e digitalizzazione. La Danimarca, oltre a non aver fatto scorte per le seconde dosi, ha espresso sin da subito la sua preferenza per i vaccini Pfizer e Moderna, e si è attrezzata per la loro somministrazione e conservazione, che si sa è più complicata rispetto agli altri,  mentre altri paesi europei esprimevano la loro preferenza per AstraZeneca, più facile da conservare e più economico e per questo prediletto da molti paesi europei. Così la Danimarca ha acquistato le dosi di Pfizer che gli altri non volevano. Gli stati membri possono mettersi d’accordo, fare scambi, l’importante è che non si verifichino delle disparità. Ora che AstraZeneca ha annunciato ritardi, l’Ue ha aumentato i suoi ordini di Pfizer e Moderna e la Danimarca spera di portare il numero di vaccinazioni quotidiane a 100.000 al giorno, per finire entro il 27 giugno. Per l’autorità sanitaria danese non è un risultato così ambizioso, è realistico, tanto più che la Danimarca conta su un sistema sanitario  digitalizzato: i cittadini vengono contattati quando è il loro turno per vaccinarsi.

 


La Danimarca è un modello nella vaccinazione, una piccola Israele in Ue. Ha preso le dosi che gli altri paesi non volevano



 

Di storie in questa pandemia, la Danimarca ce ne ha raccontate tante, è stata un romanzo a sé. Ci eravamo stupiti quando lo scorso anno aveva riaperto le scuole per prima, tracciando una mappa per la riapertura che purtroppo si è rivelata inapplicabile altrove, fatta di turni, bolle e spazi all’aperto. Poi era arrivato il momento dei visoni, il minkgate, la strage degli animali, che potevano contrarre il coronavirus, ma poi non si è chiarito se davvero potessero trasmetterlo all’uomo. Il minkgate ha creato diversi malumori, anche qualche tremolio nel governo di Mette Frederiksen. Il tutto con un alone di mistero, perché i visoni uccisi e sotterrati iniziavano a riemergere dalla terra, come zombie. Per la pandemia Copenaghen ha scritto il suo manifesto, pragmatico, realista, nordico. Un suo Dogma 2020, da applicare non al cinema, ma alla crisi sanitaria, e naturalmente contro la claustrofobia domestica, che è ciò da cui oggi scappiamo tutti.
 

(ha collaborato David Carretta da Bruxelles)