Andrew Sullivan (foto Wikipedia)

"tra virgolette"

La versione di Sullivan

Così la ricerca di una chiarezza morale assoluta ha portato alla morte del dibattito. Elogio della complessità

Milano. Domani Andrew Sullivan pubblicherà il suo ultimo articolo sul New York Magazine nel quale spiegherà le ragioni del suo addio ma già dice, annunciando l’addio con un tweet, che sono “evidenti”. Gay, cattolico, conservatore, ex direttore di New Republic che era il magazine della sinistra moderata, a favore della guerra in Iraq ma poi sempre più distante da Bush jr sulla questione dei diritti e lontanissimo dal trumpismo, due estati fa Sullivan fece una conversazione con il Foglio in cui diceva che l’America non stava morendo, “è già morta”, per il trumpismo ma anche perché era finito il dibattito, lo spazio in cui discutersi si era ristretto: “L’identity politics ha preso in ostaggio il Partito democratico, si parla soltanto di minoranze oppresse, di gender, di identità irripetibili che vanno difese da ogni critica, tanto che chi osa dare giudizi, fare distinzioni, viene immediatamente bollato come una specie di nazista”.  

 

 

Scorrendo gli articoli sul New York – ci aveva raccontato che aveva ricominciato a divertirsi a scrivere – si capisce che il restringimento dello spazio del dibattito pubblico è diventato un tema per Sullivan prima che la furia della “cancel culture” diventasse visibile a tutti. Ritorna nei suoi scritti la responsabilità del trumpismo e quella dei progressisti, ed è così che Sullivan ci fa fare il salto indispensabile per comprendere cosa sta accadendo: destra e sinistra c’entrano fino a un certo punto, è il “clima illiberale” che sta deturpando politica, informazione, cultura, tutto. In particolare, c’è un articolo del 12 giugno scorso che si intitola “C’è ancora spazio per il dibattito?”. Sullivan inizia dal saggio di Václav Havel “Il potere dei senza potere”, che “riguarda il dilemma di vivere in un mondo dove l’adesione a una particolare ideologia diventa obbligatoria”. In America questo obbligo non è imposto dallo stato, ma gli americani ci pensano da soli a uniformarsi a una ortodossia.

 

“La nuova ortodossia”, scrive Sullivan, sembra “radicarsi in quella che il giornalista Wesley Lowery chiama ‘chiarezza morale’. Lowery ha detto a Ben Smith del New York Times che il giornalismo deve essere ricostruito attorno alla chiarezza morale, il che significa smettere di cercare tutti gli aspetti di una storia, quando ce n’è una sola (…). E qual è il pensiero alla base di questa chiarezza morale? Che l’America è sistematicamente razzista, un progetto di supremazia bianca fin dalle sue origini”. Sullivan dice che è giusto che questa idea circoli in particolare in un momento tanto buio per l’America: questa visione del mondo ha certamente “chiarezza morale, ma quel che le manca è la complessità morale – scrive Sullivan – Nessun paese può essere ridotto a un unico prisma e dannarsi per questo”. Sullivan descrive brevemente la complessità sociale e culturale americana, le sfumature e le contraddizioni, ma dice che tutto questo non si ritrova più nel dibattito pubblico. “C’è poco spazio, o forse nessuno, in questo momento rivoluzionario per un disaccordo genuino e rispettoso indipendentemente dalla propria identità, e nemmeno per un’esplorazione con la mente aperta. Al contrario, c’è una campagna sempre più feroce per sedare il dissenso, congelare il dibattito, eliminare chi pone domande, e rovinare le persone che si rifiutano di ingurgitare questa ideologia riduttiva tutta intera”. E questa nuova ortodossia non si limita a “sopprimere argomentazioni contrarie e a umiliare chi le presenta”, ma sostiene che “tutto ciò che le è contrario è di per sé una violenza contro gli oppressi”. Sullivan riprende il licenziamento del capo degli editoriali del New York Times, e dice: “In questo mondo maniaco e manicheo, non hai nemmeno lo spazio per non dire nulla”. Anche il silenzio è violenza, non si può avere idee dissonanti ma nemmeno tacerle. Sullivan conclude dicendo che “il liberalismo non è solo un set di regole, c’è un spirito che lo contraddistingue”, uno spirito oltre l’ideologia e uno spirito “che non vuole imporre un’ortodossia ma vuole aprire nuove possibilità all’animo umano. Uno spirito che cerca la chiarezza morale ma che sa che è molto difficile trovarla, che la vita e la storia sono complesse, ed è proprio questa complessità che una società veramente libera cerca di capire se vuole fare passi avanti”. Questo spirito è anche “generoso, ironico e aggraziato nel suo amore per le discussioni e il dibattito”.

 

Rincontreremo questo spirito su un altro giornale, perché per fortuna quello di Sullivan non è un addio a tutti, è un trasloco lontano dal New York Magazine.