L'capo delle opinioni del New York Times, James Bennet (foto LaPresse)

La nuova inquisizione liberal ma illiberal

Giuliano Ferrara

Le culture war erano nate per riabilitare ragione e fede contro l’ideologia e il suo braccio armato del politicamente corretto, nel segno della libertà, ora tramontano come revisione forzata del lessico letterario. Oltre il Nyt : i giornali non sono caserme

Liberal but illiberal” è il nuovo stigma della stampa progressista americana. Se sei riformista, innovatore, progressista e democratico (tanti complimenti, non è necessariamente una cattiva cosa), la tua area culturale e politica farà i conti, fino a soccombere, con atteggiamenti censori, restrittivi dello spettro delle libertà civili e di opinione, incuranti dell’autonomia intellettuale di chi riceve un messaggio: sei liberal ma illiberal (e questa è una cattiva cosa e paradossale, che i conservatori, anche quelli non ammassati nei magazzini del populismo e del nazionalismo, rigettano). Nuovo ma non tanto. In molte occasioni di guerra culturale era già successo, in particolare con l’evirazione del direttore della New York Review of Books, Ian Buruma, per un articolo relativo al movimento di giustizia gender detto MeToo. E’ un gran peccato, anche perché le culture war erano nate per riabilitare ragione e fede contro l’ideologia e il suo braccio armato del politicamente corretto, nel segno della libertà umana, e ora tramontano come nuova inquisizione, revisione forzata del lessico letterario, mode comportamentali di inaudita stupidità, abbattimento idolatrico di idoli e statue eccetera.

  

Hanno indotto bruscamente alle dimissioni il capo delle opinioni del New York Times, le opinioni, cioè una sezione indipendente dal notiziario del giornale, perché aveva pubblicato un articolo provocatorio del senatore Tom Cotton, ipertrumpiano, favorevole all’impiego dell’esercito nella repressione delle rivolte violente fatte nel nome della giustizia sociale e della lotta al razzismo. Nel clima giustamente e santamente infuocato seguito all’uccisione di George Floyd, cittadino africano-americano disarmato soffocato da un poliziotto di Minneapolis, nel Minnesota, si è aperta la caccia ai direttori sgraditi, come al Philadelphia Inquirer, sul tema degli assegnamenti di servizio a giornalisti neri. Tra una idoloclastia e l’altra, con Churchill giudicato razzista, si arriverà alla denuncia di Napoleone o di Giulio Cesare come assassini seriali. E’ un pozzo senza fondo, quello dello sciocchezzaio ideologico. Ma intanto è in questione il mestiere e ancor più la vocazione culturale a stampare o mettere in linea informazioni e commenti, opinioni che dovrebbero essere plurali e libere, un tratto decisivo della società liberaldemocratica prodotta dalla rivoluzione borghese moderna. Liberal ma illiberal.

  

Tutto il gran parlare sulla diversità biologica, da preservare in nome della salvezza dall’apocalisse ecologica, mette capo all’uniformità ideologica, da affermare. Il nesso c’è e si vede: se l’uomo, in particolare l’uomo bianco occidentale, è il nemico giurato della natura, della stabilità e crescita del creato, se è un mostro vorace incapace di trattenere la sua disposizione al dominio di fronte al dettato elementare della giustizia sociale, tra storia e filogenetica, tra naturalismo e culturalismo si finisce poi inevitabilmente con la perdita dell’elemento principale della libertà: non la pensiamo tutti allo stesso modo, e dobbiamo ammettere le idee difformi dalle nostre. Non è così complicato. Su questo piccolo giornale, da quando nacque un quarto di secolo fa, abbiamo praticato in forme a volte anche anarchiche, meglio dell’autocrazia da dilettanti della “linea” culturale e politica, la diversità. Si possono fare buone battaglie, e anche cattive, e ci si può esprimere con inusitata chiarezza, senza mai contravvenire al criterio di base dell’apertura formale e sostanziale alle idee non compatibili. Con l’eccezione unica e motivata dell’antisemitismo, e con la riserva dell’intellegibilità e della pregnanza delle cose scritte o dette, ci è sempre sembrato semplicemente normale che un giornale non fosse una caserma. La scomparsa di questo principio, resa evidente da vicissitudini e storie di una democrazia che è stata per lungo tempo scuola costituzionale per tutti anche in Europa, è un dies nigro signanda lapillo, un giorno da segnare in inchiostro nero.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.