Adam Rapoport, direttore dimissionario di Bon Appétit

La purga è servita

Giulio Meotti

Cade per “razzismo” il direttore di Bon Appétit e a Sullivan non pubblicano la column. E’ guerra nelle redazioni

Roma. “La purga di editor dai giornali progressisti è un’altra pietra miliare nella marcia verso la politica dell’identità e la cancel culture attraverso le nostre istituzioni”, commenta il Wall Street Journal. L’epurazione è arrivata anche al 35esimo piano del nuovo World Trade Center, dove c’è la sede di Bon Appétit, l’ammiraglia culinaria di Condé Nast. Adam Rapoport, direttore della celebre rivista, si è dimesso dopo che sui social è stata pubblicata una sua foto risalente a sedici anni fa. E’ Halloween e Rapoport si diverte con il “brown face” (a settembre c’era stato il caso del premier canadese Justin Trudeau). Su Instagram, Rapoport ha detto che avrebbe “riflettuto sul lavoro che devo fare come essere umano”. Mea culpa mea grandissima culpa… I membri dello staff redazionale sono stati convocati tramite due incontri su Zoom per discutere la foto e altre accuse di razzismo. Per la maggior parte di loro il direttore si sarebbe dovuto dimettere, mentre Molly Baz e Carla Lalli Music, due senior editor, si sono impegnate a non andare più in video fino a che i giornalisti di colore non si sentiranno abbastanza integrati. Dopo il “sessismo” con il MeToo, sull’accusa di razzismo stanno rotolando numerose teste nel giornalismo liberal americano.

 

Al New York Times si era appena dimesso James Bennet, capo della sezione editoriali, reo di aver ospitato un commento del senatore Tom Cotton a sostegno dell’impiego dell’esercito per sedare le rivolte dopo l’uccisione di George Floyd. Anche James Dao, l’editor che aveva collaborato alla messa in pagina di Cotton, è stato “riassegnato” al Times. Non è un fenomeno nuovo.

 

Kevin Williamson, uno dei migliori giornalisti conservatori d’America, è stato arruolato e poi licenziato dopo un solo articolo dall’Atlantic, glorioso magazine liberal, dopo che i social avevano iniziato a riesumare alcuni suoi tweet contro l’aborto. Ian Buruma è stato cacciato dalla New York Review of Books per aver ospitato un’opinione critica sul MeToo. Ad Andrew Sullivan il New York Magazine ha appena vietato di scrivere delle rivolte in corso. “La mia column non uscirà questa settimana”, ha annunciato l’ex direttore di New Republic. Racconta lo Spectator che “la direzione teme che il suo miglior opinionista possa tirare fuori l’argomento radicalmente borghese secondo cui il saccheggio e la violenza sono sbagliati”. Il New York Magazine è la rivista che pubblicò “Radical chic” di Tom Wolfe, la rievocazione di un party a casa di Lenny Bernstein a favore delle Pantere nere e il resoconto del terrorismo esercitato sui funzionari del “Poverty Program”, il programma di assistenza a favore del sottoproletariato, da parte dei contestatori, da cui Wolfe fece emergere che nulla è più ridicolo e atroce del filantropismo interclassista. Sullivan deve sottoporre il suo lavoro a redattori “sensibili” per assicurarsi che non li offenda. Se supera il test, va in stampa. E’ caduto Stan Wischnowski, caporedattore del Philadelphia Inquirer, un giornale con due secoli di storia alle spalle, costretto a dimettersi per il titolo “Buildings Matter, Too”. Racconta il New York Times che “membri della redazione hanno inviato una lettera alla direzione, annunciando che l’indomani si sarebbero dati malati, e lo hanno fatto a dozzine”. Sono in gioco il diritto al dissenso e il grado di conformismo in una stampa storicamente liberal ma assediata dalla nuova cultura woke che vuole totale allineamento morale. Ma neanche la stampa conservatrice ne sembra immune. Quando a febbraio Walter Russell Mead ha pubblicato sul Wall Street Journal l’articolo “China is the Real Sick Man of Asia”, oltre quaranta giornalisti del desk hanno criticato la sezione degli editoriali in una lettera aperta ai vertici dell’azienda.

 

Sul Los Angeles Times, intanto, ieri si chiedeva alla Hbo di sospendere “Via col vento”, anche questo in odore di razzismo. Siamo nel pieno di quella che Tom Wolfe chiamò la “dittatura dei culturati”.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.