Dorothy Butler Gilliam

Con gli occhi di Dorothy Butler Gilliam

Simona Siri

Anche salire su un taxi era un problema per la prima giornalista nera del Washington Post, che ci parla delle proteste di oggi e del loro impatto su America ed Europa

Nel 1962, in un’America ancora divisa dalla segregazione razziale, Dorothy Butler Gilliam, prima donna e prima afroamericana assunta al Washington Post, fu mandata in trasferta a Oxford, nel Mississippi, a seguire i disordini nati in seguito alle proteste dei segregazionisti contro l’iscrizione alla Ole Miss – la famosa università – di James Meredith, veterano afroamericano. Chi meglio di lei, aveva pensato il suo caposervizio, per raccontare la rivolta scoppiata il 10 settembre all’interno del campus universitario, un tumulto così violento da provocare oltre 300 feriti e tre morti, tra cui un giornalista francese, Paul Guihard. Chi meglio di lei per fornire quello che i suoi colleghi bianchi non potevano evidentemente fornire, ovvero lo sguardo e la sensibilità di una persona di colore, la sua grande esperienza nel raccontare le vite degli afroamericani. “Non lo nego: avevo paura. In quel campus si stavano ammazzando”, dice la protagonista parlando al telefono con il Foglio. “Non solo, arrivata a Oxford, Mississippi mi trovai di fronte a un problema non da poco: nel segregato sud gli alberghi erano solo per i bianchi. I neri non venivano accettati. Nessuno mi volle dare una stanza. Finii a dormire in una funeral home, l’unico posto che mi accolse”. Dall’altra parte della cornetta si sente una pausa più lunga. “Ebbene sì, ho dormito tra i morti”.

 

La prima missione in Mississippi, nel 1962 dove erano scoppiati dei tumulti e gli alberghi accettavano solo bianchi

Nata a Memphis, Tennessee nel 1936, questa deliziosa signora andata in pensione nel 2003 ha vissuto una vita che è meglio di molti film e chissà che Hollywood non prenda spunto dalla sua biografia appena uscita, “Treilblazer”, per farne un successo. Gli elementi ci sono tutti. Infanzia nel profondo sud, sette fratelli, un padre predicatore, una laurea all’Università del Missouri e poi la specializzazione in giornalismo nella scuola migliore, la Columbia University Graduate School, frequentata grazie a una borsa di studio. Una carriera nella cosiddetta “stampa nera” fino al salto al Washington Post, in un periodo in cui la capitale era ancora una città in cui bianchi e neri non avevano gli stessi diritti. “Quando arrivai c’erano altri due reporter neri, due maschi, Luther P. Jackson, Jr. e Wallace Terry. Eravamo in una redazione di diverse centinaia di bianchi. Ricordare quei tempi mi provoca dolore e orgoglio, e gran parte del secondo arriva dal vedere le cose in retrospettiva. Essere stata una apripista è stato difficile. I taxi non mi prendevano perché avevano paura che li portassi in quartieri malfamati. Ma io avevo le scadenze come tutti, ero sempre di corsa, in giro per la città in cerca di storie, era ovviamente un problema. Oppure andavo a intervistare persone facoltose nelle loro abitazioni e non mi facevano entrare nel palazzo o se mi facevano entrare dovevo passare dal retro. Eppure non mi sono mai lamentata, non potevo. Sentivo su di me la responsabilità di chi sarebbe venuto dopo. Non potevo fallire, non volevo fornire ai capi bianchi la scusa per non assumere un’altra nera: abbiamo provato, ma non ha funzionato, pazienza. Non avevo alternativa se non quella di eccellere”.

 

 

Da reporter nel 1979 passa editorialista e inizia a scrivere una rubrica in cui copre istruzione, politica e razza. La rubrica dura fino al 1998. Dal 1993 al 1995 diventa presidente della National Association of Black Journalists. Nel frattempo si sposa con il pittore Sam Gilliam, ha tre figlie e vede l’America cambiare sotto i suoi occhi. “Il movimento per i diritti civili inizia ufficialmente nel 1957, ma ci sono incidenti anche prima. Nel 1955 un giovane ragazzo, Emmett Till, viene prelevato da casa, picchiato, ucciso e buttato nel Tallahatchie River. La madre insiste per fare un funerale e avere la bara scoperta, in modo che tutti possano vedere il suo corpo martoriato e mutilato. La foto finisce anche sulla copertina di diversi giornali afroamericani e da lì iniziano gli scontri. Nel dicembre dello stesso anno c’è l’episodio di Rosa Park, che si rifiuta di cedere il posto sull’autobus a un bianco e così inizia la protesta chiamata Montgomery Bus Boycott. Nel 1968 viene ucciso Martin Luther King ed è sicuramente una svolta, soprattutto per la risonanza mediatica. Un punto importante è infatti quando anche i giornali e i giornalisti bianchi si mettono a raccontare le storie dei neri, quando la televisione incomincia a trasmettere le immagini della protesta e di cosa l’ha scatenata. Fino ad allora le morti degli afroamericani non erano considerate interessanti, non finivano di certo sulla stampa tradizionale, venivano chiamate ‘cheap deaths’ e nessuno se ne voleva occupare. Poi qualcosa cambia e nelle redazioni arrivano i primi giornalisti di colore come me. Il ruolo della stampa, allora come oggi, è fondamentale. Oggi in più ci sono i social media: pensi se quella ragazza non avesse registrato con il telefonino la morte di George Floyd e non l’avesse resa pubblica”.

 

“Black Lives Matter è un movimento meno centralizzato, ci sono più leader ma nessun Dr King. Non è un male, ma è diverso”

La differenza tra Black Lives Matter e il movimento per i diritti civili del passato, tecnologia a parte, è che al primo manca un leader. “Noi avevamo il Martin Luther King. Era un uomo straordinario, e ha fornito guida e concentrazione a tutta quell’energia giovane, non permettendo che venisse dispersa. Black Lives Matter è un movimento meno centralizzato, ci sono più leader ma nessuno a livello del Dottor King. Non è che sia un male, ma è diverso”. Delle proteste recenti quello che l’ha colpita è che fossero multirazziali, che abbiano messo insieme non solo afroamericani, ma bianchi, latini, nativi americani. “Questa cosa negli anni Sessanta non c’era, a marciare e a protestare erano sempre solo i neri. E’ il segno che qualcosa è davvero cambiato e che non è limitato solo agli Stati Uniti. Ho visto le immagini delle proteste in Europa: è incredibile, così come è importante che la morte di Floyd l’abbiano vista tutti”. Quando parla degli eventi del passato, non li chiama sommosse. “Li chiamo ribellioni urbane. Ho visto come tutti le immagini di cosa è successo la settimana scorsa in varie città americane, e non scuso la violenza in nessun modo, ma i media dovrebbero fare maggiori distinzioni tra chi protesta pacificamente e chi si lascia andare ad atti di vandalismo”.

 

  

Gilliam è colpita da queste rivolte multirazziali. Negli anni Sessanta era così, “a marciare e a protestare erano sempre solo i neri”

Per chi ha vissuto la segregazione razziale e poi i diritti civili ritrovarsi in un paese di nuovo alle prese con le proteste, le marce, gli slogan, l’aggressione della polizia, deve fare un effetto un po’ straniante, come se dopo aver fatto dieci passi avanti, l’America tutta ne stesse facendo dodici indietro. “Non bisogna mai dimenticare i progressi fatti”, dice senza troppa nostalgia. “Quelli del passato, ma anche quelli del futuro. Ora c’è bisogno che la mobilitazione continui, che i media non perdano interesse, che le persone non abbassino l’attenzione. Non mi aspetto che la gente continui a protestare allo stesso modo, ma che rimanga alta la soglia della sensibilità. Se si vedono abusi, bisogna denunciarli. Se si vedono episodi di razzismo, non bisogna rimanere indifferenti. E’ confortante sapere che in questo momento in America l’opinione pubblica è compatta a favore del movimento. Bisogna continuare a chiedere cambiamento, la riforma della polizia è importante, ma non è la sola cosa da chiedere, bisogna insistere perché vengano assunte persone di colore in tutti i ruoli. Nei giornali, come abbiamo, visto sono fondamentali e non sto parlando solo di reporter, sto parlando di editor, di chi decide cosa va in pagina, di chi pensa e realizza un organo di informazione. Negli anni Sessanta i giornalisti bianchi si nascondevano dicendo che non potevano capire cosa stava succedendo, che non si sentivano adeguati. E questo è stato un incentivo per assumere giornalisti neri. Quando c’erano solo giornalisti bianchi che scrivevano di afroamericani, il loro mondo veniva raccontato come i bianchi lo vedevano, non come era, era un’immagine distorta degli americani di colore. Come ha detto il mio amico Robert C. Maynard in modo così eloquente: ‘Il paese non può essere il paese che vogliamo che sia se la sua storia viene raccontata solo da un gruppo di cittadini. Il nostro obiettivo è quello di dare a tutti gli americani l'accesso principale alla verità’. Lo stesso sta succedendo adesso, in misura ancora più grande. Bisogna insistere nell’indagare la supremazia bianca e il razzismo sistemico, argomenti che ancora vengono negati e che invece bisogna analizzare e discutere apertamente. Bisogna anche assumere più donne, in tutti i ruoli”.

 

“Non bisogna mai dimenticare i progressi fatti”, dice senza troppa nostalgia. “Quelli del passato, ma anche quelli del futuro”

Il rapporto tra il movimento per i diritti civili dei neri e quello femminista è di lunga data. Nel 1969 Gloria Steinem sul New Yorker scrive un articolo intitolato “After black power, women’s liberation”. Dorothy Butler Gilliam non solo se lo ricorda bene: negli anni lei e Steinem si sono incrociate molto. “Sono percorsi simili, soprattutto all’interno delle redazioni: anche le giornaliste bianche erano pagate meno. Alcune di loro portarono giornali come il New York Times in tribunale per discriminazione. Da lì ne furono assunte di più e come nel caso degli afroamericani avere occhi e voci non solo maschili ha segnato un passo importante verso il cambiamento”. Difficile però togliersi dalla testa il racconto di quando pur lavorando per un giornale come il Washington Post non poteva andare a dormire negli alberghi insieme ai bianchi. Ma i suoi colleghi non neri non hanno cercato di aiutarla, non erano solidali con lei?. “Lo sa che non gliel’ho mai chiesto? E comunque no, non particolarmente: alcuni quando mi incontravano per la strada facevano persino finta di non conoscermi. Nel libro parlo spesso del mio capo, l’editor della sezione City: ecco, lui mi ha molto aiutato. Come mi disse uno dei miei professori universitari: ‘Dorothy, hai così tanti handicap di partenza che probabilmente ce la farai’. Non intendeva in modo meschino, anzi. Ero una donna di colore che entrava in ambienti che erano un mare di bianchi: sapeva che ci sarebbero stati degli squali”.