(foto LaPresse)

La colonial dame

Simonetta Sciandivasci

Ahi. Anna Wintour si scusa perché Vogue, sotto la sua direzione, non è stato inclusivo. Basterà?

"La signora Wintour è una colonial dame, non permetterà mai che i suoi privilegi di bianca vengano ostacolati”. Lo ha detto André Leon Talley, ex redattore di Vogue, in un’intervista radiofonica che il New York Times cita in un pezzo dal titolo piuttosto eloquente: “Anna Wintour sopravvivrà al Movimento di giustizia sociale?”. Certo che sì, ma come? Il processo a suo carico sarà inevitabile e non è detto che ne uscirà assolta, né illesa, come è stato per le accuse di spalleggiamento del sessismo e delle sue molestie e, prima ancora, di sfregio del corpo femminile e sua riduzione a stampella di abiti inarrivabili. Il suo potere, pur essendo invariato (parliamo della direttrice a vita di Vogue), non incute lo stesso timore di un tempo. Quando Mario Testino e Bruce Weber, fotografi di moda da sempre legati alla Condé Nast, vennero accusati di molestie sessuali da modelli e assistenti omosessuali, lei scrisse un comunicato aziendale molto fermo, nel quale spiegava che l’azienda non intendeva soprassedere su crimini di quel tipo, provate o presunte che fossero le accuse. E tutti zitti (più o meno). C’era il #MeToo, che ha avuto una forza e una globalità simili a quelle del #blacklivesmatter, ma che non poteva davvero rivoltarsi contro una donna.

 

Il conto, prima o poi, sarebbe stato saldato e forse è arrivato il momento. Wintour pagherà gli anni di direzione di Vogue in cui è stata dittatoriale, unica, raggiante, diabolica e, soprattutto, discriminatoria. Pagherà per lei e per tutta l’azienda, che nonostante le accortezze, i rimproveri, le proteste, le richieste di pari opportunità tra dipendenti, risulta ancora ostile ai dipendenti di colore, che guadagnano e contano meno. Non conta quante volte Wintour si sia scusata con i suoi dipendenti afroamericani, quanto accoratamente abbia detto di non riuscire a immaginare quanto difficile sia stato per loro lavorare in un posto come la Condé Nast, in questi anni e ancora di più in questi giorni. Non conta che abbia ammesso che l’azienda è in ritardo su inclusività, correzione di appropriazioni culturali ed equa valorizzazione delle risorse.

 

Non conta perché lei è Anna Wintour, la colonial dame, e perché le sue sono soltanto parole, proclami, manifestazioni simboliche che, di fatto, non cambiano lo status quo di nessuno. Certo, la settimana scorsa il caporedattore della rivista Bon Appétit, Adam Rapoport, si è dimesso perché, dopo giorni in cui molti suoi collaboratori hanno lamentato il razzismo interno alla rivista, dimostrato dallo spazio nullo dedicato alle minoranze (scriviamo solo ricette europee e mai di cosa mangiano in Messico), è venuta fuori una foto in cui, a una festa di Halloween del 2004, è vestito da portoricano. Abiezione massima.

 

Ginia Bellafante, che è nota per avere posizioni non compromissorie sulla mercificazione del corpo, ha scritto sul New York Times che per anni i dipendenti e i liberi professionisti di colore non sono stati ascoltati, o creduti, o costretti sempre a fornire prove quasi impossibili da fornire, quando denunciavano il razzismo ai loro danni: adesso i loro aguzzini vengono incastrati grazie agli iPhone ed è giusto così, è la nemesi perfetta. Anche per via del caso Rapoport, che ha tirato fuori lo scontento di un’intera redazione, Wintour ha esposto scuse pubbliche, che in un momento più disteso di questo avremmo definito storiche, e che però sono niente in confronto al fatto che Harper’s Bazaar, negli stessi giorni, ha nominato una caporedattrice di colore, Samira Nasr, la prima in 153 anni di pubblicazioni.

 

E’ un fatto. Così come sono fatti certi trascorsi di Anna Wintour, per esempio che ha messo in copertina LeBron James (anche se le viene contestato che, di fianco a lui, compariva una modella bianca, Gisele Bündchen), Rihanna, Serena Williams prima degli altri e ha affidato la guida di Teen Vogue a due redattori di colore. Bazzecole in confronto al fatto che, scrive il New York Times, “nei 32 anni che ha trascorso alla guida di Vogue, Wintour ha sancito il valore di sangue, pedigree, privilegi più di qualsiasi altro giornale americano”. La Signora sconterà un odio antico, e la sua vendetta fredda.