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Tutto quello che sappiamo di Kim Jong Un è che ragiona benissimo. Una superbiografia

Giulia Pompili

In "The Great Successor" di Anna Fifield c'è tutto quello che nessuno era riuscito a mettere assieme

Roma. A metà giugno la PublicAffairs ha dato alle stampe “The Great Successor: The Divinely Perfect Destiny of Brilliant Comrade Kim Jong Un”, un libro che è stato accolto come un evento, perché mai nessuno aveva messo assieme così tanti dettagli e nozioni e ne aveva prodotto una biografia di prima mano del leader nordcoreano Kim Jong Un.

 

L’autrice conosce bene la materia: è Anna Fifield, per anni corrispondente tra Tokyo e Seul del Washington Post e adesso capo del bureau di Pechino per lo stesso quotidiano. Più della metà dei ritratti e dei libri che avete letto finora sul leader nordcoreano sono copiati dai suoi articoli, che negli anni si sono trasformati in una delle principali fonti d’informazione e di bibliografia per chiunque si occupi di affari nordcoreani. “The Great Successor” è una vera biografia, a metà tra il divulgativo e la saggistica, ma niente di quello che è riportato dalla Fifield ha a che fare con l’estremizzazione o la volontà di rendere più truculente (e quindi più vendibili) le descrizioni del “giovane Kim”. A cominciare dalla copertina – un’illustrazione pop che non tenta né di umanizzare né di mostrificare il compagno Kim. Il libro, dedicato ai “venticinque milioni di nordcoreani. Perché possano presto essere liberi di seguire i propri sogni”, è diviso in tre parti: la prima è dedicata alla formazione. Dell’infanzia di Kim Jong Un si sa ben poco, e quello che si sa, nelle narrazioni ufficiali, ha più a che fare con l’epica che con la realtà. Sappiamo che ha trascorso alcuni anni di scuola in Svizzera, ma niente di più. Attraverso le interviste ad alcune persone che lo hanno conosciuto, per esempio lo chef dell’élite di Pyongyang, il giapponese Kenji Fujimoto, e la zia materna di Kim, Ko Yong Suk, fuggita dalla Corea del nord e ora donna delle pulizie in America. Fifield racconta che Kim era un bambino grassottello, un po’ nerd, a cui piacevano i giochi di meccanica, i modellini. Ko Yong Suk spiega alla Fifield che la loro vita in Svizzera era quella di una “famiglia normale. Fingevamo di essere normali, e io fingevo di essere la loro madre”. A cui piaceva però “godersi la vita europea e avere i soldi”. L’album di famiglia contiene fotografie del futuro leader nordcoreano nuotare nel Mediterraneo sulla costa francese, cenare al fresco in Italia, andare a EuroDisney a Parigi, sciare sulle Alpi svizzere”. Più adulto, Kim frequenta l’università militare intitolata a suo nonno Kim Il Sung, “l’equivalente nordcoreano di West Point”, un modo per prepararlo in qualche modo alla successione che non gli sarebbe spettata, ma che sua madre Ko Jong Hui, terza moglie di Kim Jong Il, spingeva per rivendicare. Kim Jong Un si prepara a prendere le redini del paese.

  

La seconda parte della biografia è tutta dedicata alla salita al potere e al consolidamento della sua posizione. Nessuno avrebbe puntato due lire sul figlio grassottello di Kim Jong Il, e Fifield spiega com’è che andata come è andata: “Nei primi cinque anni del suo regno, Kim Jong Un ha messo il paese, già tra i più isolati del mondo, in lockdown”: ha rafforzato la sicurezza ai confini, ha usato la mano pesante contro chiunque potesse mettere in pericolo il suo potere, ha irrobustito la propaganda. Fifield cita la lezione di Machiavelli, messa in pratica da Kim: “Meglio essere temuti che amati”. Come per lo zio epurato, Jang Song Thaek: “Ha giocato un ruolo cruciale nella successione”, scrive Fifield, “Quando è morto Kim Jong Il, il ruolo dello zio Jang ai vertici del regime è divenuto chiaro, soprattutto quando lo si è visto camminare proprio dietro a Kim Jong Un e ai becchini”. Jang è l’eminenza grigia, e non è uno stinco di santo: “Ama bere, giocare a carte, cantare al karaoke. E’ noto per essere un dealmaker”, si occupava lui stesso dell’harem per Kim Jong Il. Ma appunto, il suo essere troppo “indipendente” non andava giù al giovane leader, che alla fine del 2013 decide di epurarlo.

 

La terza parte del libro, forse la più interessante anche se meno aneddotica, Fifield la dedica alla sicurezza di sé. La giornalista ha parlato con Ian Robertson, docente di Neuroscienze del Trinity College di Dublino, che non solo spiega dettagliatamente perché la narrazione del Kim fuori di testa sia totalmente sbagliata, perché tutti i segni sono quelli di una persona “razionale e psicologicamente stabile”, ma Robertson ha anche una interessante teoria evolutiva: “Diventare leader della Corea del nord potrebbe aver cambiato il cervello di Kim Jong Un. ‘Il potere è una delle possibili cause di più profondo cambiamento biologico e fisico del cervello umano’, dice Robertson”. Forse è una teoria che vale anche per il suo miglior sponsor, Donald Trump.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.