Il presidente americano, Franklin Delano Roosevelt, e il primo ministro britannico Winston Churchill in Marocco in un summit durante la guerra (Foto LaPresse)

Che D-day globalista

Daniele Raineri

Le banche, i giornaloni, la finanza, i dems e l’élite. La Normandia fu una faccenda poco sovranista

Roma. È molto probabile che lo sbarco in Normandia di settantacinque anni fa metta un senso di disagio addosso ai propagandisti del sovranismo di oggi. C’era un’armata molto globalista e multinazionale schierata nel canale della Manica, pronta a invadere per stabilire un nuovo ordine mondiale. C’era un impulso idealista, l’idea che non si poteva continuare a tollerare gli eventi. C’era il partito democratico americano, che aveva deciso di portare l’America in guerra in Europa – anche se in fondo era stato il Giappone ad attaccare no? E c’erano i grandi giornali a sostegno? C’erano. C’era la finanza in appoggio? C’era. E l’élite? C’era pure quella. E c’era l’interferenza nelle faccende di altri paesi lontani – un’altra cosa che oggi secondo i nostri non si deve assolutamente fare? C’era. Il dibattito politico che nel giro di qualche anno portò all’operazione Overlord ha delle tinte che ricordano i dibattiti di oggi.

  

Il presidente Franklin Delano Roosevelt aveva capito presto che il problema della guerra era globale, alla fine nessuno sarebbe stato risparmiato, illudersi di stare al sicuro dietro i propri confini e ignorare quello che accadeva in Europa non avrebbe funzionato. Dall’altra parte c’erano gli isolazionisti, che avevano come dottrina politica il badare ai propri affari senza farsi coinvolgere nei sommovimenti che stavano scuotendo il mondo. L’America è difesa dagli oceani dicevano, vediamo chi prevale e poi facciamo accordi con i vincitori, è la cosa che conviene di più – questo è il criterio che deve guidarci nelle scelte. È il buon senso, per usare una parola che è finita negli slogan politici alle ultime elezioni europee. Roosevelt chiamava gli isolazionisti shrimps, gamberetti, perché come i gamberetti erano tanti, avevano terminazioni nervose ma non avevano un cervello, obbedivano a impulsi primari. Li divideva in categorie diverse: c’erano quelli in cattiva fede che lanciavano appelli falsi e sapevano scatenare le emozioni; c’erano quelli che agivano con strategia per dividere gli americani; c’erano quelli in buona fede, che credevano in ciò che dicevano; c’erano i “cheerful idiots” come li definì in un discorso. Gli idioti che celebravano l’isolamento dell’America ed erano convinti che la sicurezza dipendesse dal restare chiusi nel proprio recinto.

 

  

E pure gli argomenti d’attacco degli isolazionisti americani – e prima degli isolazionisti europei – suonano familiari. I democratici, i giornaloni, l’élite, vogliono farci fare una cosa che “il popolo” non vuole. Lo zampino della finanza ebraica (a gennaio il senatore Lannutti ci rivelò su twitter che ci sono tredici famiglie potentissime che comandano il mondo. Fonte: i Protocolli dei Savi di Sion, il falso storico antisemita più falso e più antisemita di sempre. Non cambia nulla, nemmeno nel 2019). Se Soros all’epoca dell’entrata in guerra degli Stati Uniti non avesse avuto undici anni lo avrebbero incolpato pure di quello. Tutte quelle navi nella Manica, chi le paga?

 

Il cosiddetto “buon senso” non ha prevalso, lo sbarco in Normandia è diventato una pietra fondativa dell’occidente, poi è venuto tutto il resto. La Nato. Gli accordi economici fra paesi europei. L’Unione. Settantacinque anni di stabilità, mentre nel resto del mondo succedeva di tutto e spesso “di tutto” vuol dire cose orribili. I sovranisti – i nuovi shrimps – vorrebbero che il pendolo si mettesse a oscillare nell’altra direzione, spingono forte, puntano a disfare quello che si è fatto. Alle ultime elezioni dove hanno votato duecento milioni di europei tre elettori su quattro hanno dato il voto a partiti europeisti.

Di più su questi argomenti:
  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)