Ronald Reagan fa il saluto militare durante la cerimonia per la commemorazione dei 40 anni del D-day, il 6 giugno 1984 (Vincent R. Kritts/ US Military)

Il vostro destino è il nostro

Ronald Reagan

Il gran discorso del presidente Ronald Reagan nel 1984 in Normandia ai "ragazzi di Point du Hoc", contro l'isolazionismo e le guerre di conquista ma per le guerre di libertà 

Pubblichiamo il discorso che Ronald Reagan pronunciò a Pointe du Hoc, nel nord della Francia, il 6 giugno del 1984, col cielo e il mare grigi a fargli da sfondo. Davanti all’allora presidente degli Stati Uniti c’erano 62 dei “ragazzi di Pointe du Hoc”, che nel 1944 avevano superato gli scogli con corde e ganci per raggiungere una postazione dei tedeschi che stava 30 metri più su. Questo discorso fu scritto da Peggy Noonan, oggi scrittrice ed editorialista del Wall Street Journal, che allora aveva 33 anni, lavorava da pochi mesi alla Casa Bianca e, quando iniziò a scrivere la bozza, non aveva mai incontrato il presidente. È ancora oggi uno dei discorsi più citati della storia americana. Di lì a qualche mese, Reagan avrebbe vinto il suo secondo mandato alla Casa Bianca. Oggi soltanto uno di quei “ragazzi di Pointe du Hoc” è ancora vivo.

 

Siamo qui oggi per ricordare quel giorno della storia quando le forze alleate si unirono alla battaglia per riportare la libertà in questo continente. Per quattro lunghi anni, gran parte dell’Europa aveva vissuto in una terribile ombra. Paesi liberi erano caduti, gli ebrei morivano nei campi, milioni di persone chiedevano, urlavano di essere liberati. L’Europa era ridotta in schiavitù e il mondo pregava per la sua salvezza. Qui, in Normandia, iniziò la salvezza. Qui gli Alleati si presentarono e combatterono contro la tirannide in un gigantesco progetto che non aveva precedenti nella storia umana.

 

Siamo qui oggi, in un punto isolato e ventoso della costa nord della Francia. L’aria è leggera ma 40 anni fa in questo preciso momento, l’aria era pesante di fumo e di urla di uomini, e l’aria era piena di spari e di ruggiti dei cannoni. All’alba, nella mattina del 6 giugno del 1944, 225 Rangers sbarcarono dalle navi da sbarco inglesi ai piedi di queste scogliere. La loro era una delle missioni più difficili e importanti dell’invasione: arrampicarsi su questi scogli desolati e prendere le armi dei nemici. Gli Alleati sapevano che molte delle armi più pericolose erano qui e che i nemici erano stati addestrati sulla spiaggia per fermare l’avanzata degli alleati.

  

Perché lo avete fatto? Perché non avete seguito l'istinto di preservarvi? Fu la fede, fu la fiducia. Fu la lealtà, fu l'amore 

I Rangers guardarono verso l’alto e videro i soldati nemici – dalle scogliere sparavano giù contro di loro con le mitragliatrici e tiravano granate. I Rangers americani iniziarono ad arrampicarsi. Sparavano scale di corda sulla scogliera e si spingevano l’un l’altro verso l’alto. Quando un Ranger cadeva, un altro prendeva il suo posto. Quando una corda si tagliava, un Ranger ne prendeva un’altra e ricominciava la salita. Si arrampicavano, sparavano e resistevano. Presto, uno per uno, i Rangers arrivarono in cima e toccando la terra là sopra iniziarono a riprendersi indietro il continente europeo. Arrivarono in 225. Dopo due giorni di battaglia, soltanto 90 riuscivano ancora a imbracciare le armi. Alle mie spalle c’è un memoriale che rappresenta i pugnali dei Ranger che furono ficcati in cima a queste scogliere. E di fronte a me ci sono gli uomini che li piantarono. Sono i ragazzi di Pointe du Hoc. Sono gli uomini che hanno preso le scogliere. Sono i campioni che hanno contribuito a liberare questo continente. Sono gli eroi che hanno fermato una guerra.

 

Signori, vi guardo e penso alle parole di una poesia di Stephen Spender. Siete uomini che nelle vostre “vite hanno combattuto per la vita... e hanno lasciato sull’aria vivida la firma del loro onore”. Penso di sapere a che cosa state pensando ora. State pensando “eravamo soltanto una parte di uno sforzo più grande, tutti furono coraggiosi quel giorno”. Sì, tutti furono coraggiosi. Ricordate la storia di Bill Millin del 51esimo Highlanders? Quaranta anni fa oggi, i soldati britannici furono bloccati vicino a un ponte, e aspettavano disperatamente che qualcuno li aiutasse. All’improvviso sentirono il suono delle cornamuse, alcuni pensarono di star sognando. Be’, non stavano sognando. Guardarono in alto e videro Bill Millin con la cornamusa che guidava i rinforzi ignorando gli schiaffi dei proiettili sul terreno attorno a lui.

  

 

Con lui c’era Lord Lovat, Lord Lovat di Scozia, che con calma annunciò arrivando sul ponte: “Scusate, sono qualche minuto in ritardo”, come se fosse rimasto bloccato nel traffico, quando in realtà arrivava dalla sanguinosa battaglia su Sword Beach, con i suoi uomini. Ci fu il valore incredibile dei polacchi che si buttarono tra i nemici, e ci fu l’insuperabile coraggio dei canadesi che avevano già conosciuto l’orrore della guerra su queste coste. Sapevano che cosa li aspettava, ma non si fermarono. In un colpo presero Juno Beach, e non si voltarono mai indietro. Tutti questi uomini erano parte di un elenco d’onore con nomi che parlavano di un orgoglio che luccicava dei colori che avevano addosso: la fanteria della Riserva canadese, il 24esimo reggimento dei polacchi, la fanteria reale scozzese, le Screaming Eagles, le guardie delle divisioni armate dell’Inghilterra, le forze della Francia libera, le Guardie costiere di Matchbox Fleet e voi, i Rangers americani.

 

Sono passate quaranta estati dalla battaglia che avete combattuto qui. Eravate giovani il giorno in cui avete conquistato questa scogliera. Alcuni di voi erano poco più di ragazzi, con le gioie più profonde della vita ancora davanti a voi. Eppure, rischiaste tutto qui. Perché? Perché lo avete fatto? Che cosa vi spinse a mettere da parte l’istinto di preservarvi e di rischiare la vita su queste rocce? Che cosa inspirò tutti gli uomini degli eserciti che si ritrovarono qui? Vi guardiamo e in qualche modo riconosciamo la risposta. Fu la fede e la convinzione, fu la lealtà e l’amore.

    

Gli uomini della Normandia credevano che quel che stavano facendo fosse giusto, avevano fede nel fatto che stavano combattendo per l’umanità intera, la fede nel fatto che un Dio giusto gli avrebbe concesso misericordia in questa spiaggia o in quella dopo. Fu la profonda consapevolezza – e preghiamo Dio di non averla perduta – che c’è una profonda differenza morale tra l’uso della forza per la libertà e l’uso della forza per la conquista. Voi eravate qui per liberare, non per conquistare, e così voi e gli altri non avevate alcun dubbio sulla vostra missione. Avevate ragione a non dubitare. Sapevate tutti che per alcune cose vale la pena di morire. Vale la pena di morire per la propria nazione, per la democrazia vale la pena di morire, perché è la forma di governo più profondamente onorevole mai concepita dall’uomo. Ognuno di voi amava la libertà. Ognuno di voi voleva combattere la tirannide, e sapevate che le persone a casa erano dalla vostra parte.

 

È meglio essere pronti a proteggere la pace subito piuttosto che dover intervenire quando la libertà è ormai perduta

Gli americani che hanno combattuto qui in quella mattina sapevano che la notizia dell’invasione si stava diffondendo quando ancora in patria era buio – o sapevano nei loro cuori, anche se non ne avevano le prove, che in Georgia le chiese si stavano riempiendo alle 4 del mattino, che in Kansas le persone si inginocchiavano nel patio di casa a pregare, che a Filadelfia stavano suonando la campana della libertà.

 

Qualcos’altro ha aiutato gli uomini del D-Day. La loro fede incrollabile che la Provvidenza avrebbe avuto un ruolo fondamentale negli eventi che si sarebbero svolti qui, che Dio sarebbe stato un alleato in questa grande causa. Così, la notte prima dell’invasione, quando il colonnello Wolverton ha chiesto alle sue truppe di paracadutisti di inginocchiarsi con lui in preghiera, ha detto: “Non abbassate il capo, ma guardate in alto così da poter vedere Dio e chiedere la sua benedizione per quello che stiamo per fare”. Quella stessa notte il generale Matthew Ridgway ha ascoltato nella sua branda la stessa promessa che Dio fece a Giosuè: “Non ti deluderò e non ti abbandonerò”. È questo ciò che li ha spinti, è questo ciò che ha plasmato l’unità degli Alleati.

 

Quando la guerra finì, c’erano vite da ricostruire e governi che dovevano tornare al popolo. C’erano nazioni che dovevano rinascere. Soprattutto, una nuova pace doveva essere costruita. Erano imprese enormi e difficili. Ma gli Alleati trovarono forza nella fede, nella convinzione, nella lealtà e nell’amore di quanti sono caduti qui. E assieme hanno costruito una nuova Europa. C’è stata dapprima una grande riconciliazione tra quanti sono stati nemici, poiché tutti hanno sofferto enormemente. Gli Stati Uniti hanno fatto la loro parte, creando il piano Marshall per aiutare la ricostruzione dei nostri alleati e dei nostri antichi nemici. Il piano Marshall ha portato all’Alleanza atlantica – una grande alleanza che ancora oggi è lo scudo della nostra libertà, della prosperità e della pace.

 

Nonostante i nostri grandi sforzi e i nostri successi, non tutto quello che è successo dopo la fine della guerra è stato felice o previsto. Alcuni paesi liberati sono andati perduti. Il grande dolore di questa perdita riecheggia ancora nei nostri tempi nelle strade di Varsavia, Praga e Berlino est. Le truppe sovietiche che arrivarono nel centro di questo continente non l’hanno mai abbandonato anche dopo l’arrivo della pace. Sono ancora qui. Non invitate, indesiderate, inflessibili, quasi 40 anni dopo la guerra. Per questa ragione, le forze alleate sono ancora in questo continente. Oggi, come 40 anni fa, i nostri eserciti sono qui con un solo obiettivo: proteggere e difendere la democrazia. Gli unici territori che possediamo sono i luoghi della memoria come questo e i cimiteri dove i nostri eroi riposano.

 

In America abbiamo imparato l’amara lezione di due Guerre mondiali: è meglio essere pronti a proteggere la pace piuttosto che cercare rifugio dall’altra parte del mare, per poi dover intervenire soltanto quando la libertà è ormai perduta. Abbiamo imparato che l’isolazionismo non è mai stato né sarà mai una risposta accettabile ai governi tirannici ed espansionisti. Ma cerchiamo di essere sempre pronti alla pace, pronti a fermare le aggressioni, pronti a negoziare la riduzione degli armamenti e sì, pronti a tendere la mano in uno spirito di riconciliazione, ancora una volta. In verità non c’è riconciliazione che vorremmo di più di quella con l’Unione sovietica, per ridurre i rischi della guerra, ora e per sempre.

 

Non bisogna dimenticare le enormi perdite subite dal popolo russo durante la Seconda guerra mondiale: sono morti 20 milioni di persone, un prezzo terribile che mostra al mondo la necessità di porre fine alla guerra. Vi dico dal cuore che negli Stati Uniti non vogliamo la guerra. Vogliamo eliminare dalla faccia della terra le armi terribili che si trovano adesso nelle mani degli uomini. E siamo pronti a compiere questa impresa. Aspettiamo che l’Unione sovietica ci dia un segnale del fatto che è pronta ad andare avanti, che condivide il nostro desiderio e amore per la pace, e che porrà fine all’espansionismo. Ci dev’essere un cambiamento che ci consenta di trasformare le nostre speranze in azioni.

 

Pregheremo per sempre che un giorno quel cambiamento arrivi. Ma per ora, e soprattutto oggi, è giusto rinnovare il nostro impegno gli uni nei confronti degli altri a favore della nostra libertà, e rinnovare l’alleanza che la protegge. Siamo legati oggi da ciò che ci ha legato 40 anni fa, la stessa lealtà, le stesse tradizioni, le stesse convinzioni. Siamo legati dalla realtà. La forza degli alleati dell’America è vitale per gli Stati Uniti, e la garanzia di sicurezza americana è necessaria per non perdere la libertà delle democrazie europee. Eravamo con voi allora, siamo con voi oggi. Le vostre speranze sono le nostre speranze, il vostro destino è il nostro destino.

 

Qui, in questo luogo dove l’occidente ha resistito assieme, facciamo un voto ai nostri morti. Mostriamo loro con le azioni che sappiamo la ragione per cui sono morti. Facciamo che le nostre azioni suonino per loro come le parole che sentì Matthew Ridgway: “Non ti deluderò e non ti abbandonerò”. Rafforzati dal loro coraggio, rincuorati dal loro valore e sostenuti dalla loro memoria, dobbiamo continuare a difendere gli ideali per cui loro sono vissuti e sono morti. Grazie, e che Dio vi benedica.

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