La marcia degli indipendentisti scozzesi a Glasgow lo scorso 4 maggio (Foto LaPresse)

Separarsi è contagioso

Gregorio Sorgi

Mai sentito parlare tanto di referendum: no, non il secondo sulla Brexit. Gli altri, quelli dei repubblicani irlandesi e dei nazionalisti scozzesi. Così il Regno Unito va a pezzi per davvero

Theresa May aveva annunciato un grande festival per celebrare la cultura britannica nel 2022, ma poi non ne ha più parlato. Da ultimo ogni accenno all’unità della Gran Bretagna rischia di avere ripercussioni politiche, e di riaprire vecchie ferite. “Il 2022 è un pessimo tempismo, coincide col centenario dello Stato libero d’Irlanda, e con la guerra civile – ha scritto il think tank British Future pochi giorni fa – il festival non avrà successo in alcune aree della Gran Bretagna a causa della Brexit”, che ha fatto tornare le antiche tensioni tra Londra e le altre capitali del Regno.

 

Gli attentati terroristici della New Ira hanno ricevuto una grande attenzione mediatica anche a causa della Brexit

Ci è voluta la morte della giornalista Lyra McKee a Derry, nell’Irlanda del nord, per riunire la famiglia riottosa del Regno Unito, che per una volta si è lasciata alle spalle i propri rancori. Nelle prime file della chiesa gremita per il funerale c’era Theresa May, la premier britannica in abito scuro, e accanto a lei Leo Varadkar, il primo ministro irlandese. Dietro a loro, le due zarine della politica nordirlandese: Arlene Foster, leader del Dup, il partito unionista (centrodestra e pro Brexit) che tiene in vita il governo della May al Parlamento di Londra, e Mary Lou McDonald, leader dei repubblicani di Sinn Féin (centrosinistra e pro remain), che combatte la battaglia esistenziale per l’unità irlandese. Il quadro di famiglia nasconde l’odio fratricida tra i diversi leader, ognuno dei quali porta avanti la propria battaglia politica nell’ora più delicata. La Brexit ha messo a dura prova l’unità della Gran Bretagna, rievocando delle vecchie rivalità mai sopite.

 

 

 

Gli indipendentisti nordirlandesi sono tornati a uccidere sotto le vesti della New Ira: non avevano mai smesso di farlo dopo gli Accordi del Venerdì Santo del 1998, ma oggi è più facile attribuirgli un significato politico. “Gli attentati e le rivendicazioni dei dissidenti repubblicani ci sono sempre state, ma ultimamente hanno ricevuto una grande attenzione mediatica a causa della Brexit”, spiega al Foglio la docente Marisa McGlinchey, che ha intervistato oltre novanta attivisti repubblicani per il suo ultimo libro, Unfinished Business: The Politics of ‘Dissident’ Irish Republicanism”. L’uscita dall’Ue ha riacceso i riflettori sulla questione irlandese, e i dissidenti repubblicani non si sono lasciati sfuggire l’occasione. La New Ira è nata nel 2012 e prende il nome del gruppo terrorista indipendentista che si è sciolto gradualmente dopo gli Accordi del Venerdì Santo. I suoi dirigenti non riconoscono il processo di pacificazione, accusandolo di avere perpetuato il dominio britannico nell’isola. Un tempo i repubblicani di Sinn Féin erano il braccio politico dell’Ira, ma oggi i rapporti non sono più quelli di un tempo. “Sinn Féin non è più un partito repubblicano, ormai è un partito di centro – dice un dirigente anonimo della New Ira al Sunday Times – Non ci sono più partiti di sinistra”.

  


La leader di Sinn Féin Mary Lou McDonald, la premier britannica Theresa May e il primo ministro irlandese, Leo Varadkar, al funerale della giornalista Lyra McKee a Derry (Foto LaPresse)


 

La situazione è ancora più instabile a causa dei rapporti ostili tra Sinn Féin e Dup, che per legge devono governare assieme in una coalizione. Tuttavia, nel 2017 si è rotto il sodalizio, e anche stavolta la Brexit c’entra molto. Il Dup è stato coinvolto in uno scandalo di corruzione, Sinn Féin ha usato il pretesto per lasciare il governo, ed è stato impossibile rimettere insieme i cocci. Ci sono anche state nuove elezioni, ma nulla da fare: così da oltre due anni l’Assemblea di Belfast è bloccata. “Senza la Brexit sarebbe stato più facile riunire la coalizione”, spiega Tony Connelly, corrispondente da Bruxelles per l’emittente nordirlandese Rte: “Ma i due partiti non hanno alcuna voglia di rimettersi insieme, sono troppo divisi sull’uscita dall’Ue e sul molte altre questioni. Tra loro c’è una mancanza di rispetto reciproca”.

 

I giornali euroscettici hanno molto criticato l’Irlanda per essere entrata nell’Organizzazione della francofonia

Sulla scia della morte di Lyra McKee, il governo di Londra ha annunciato di voler riavviare le trattative tra Sinn Féin e il Dup, e c’è stato un incontro preliminare tra le parti in causa, il 7 maggio. Tuttavia Mc Glinchey precisa che la rottura nella coalizione “non c’entra nulla con l’attività della New Ira”. “Se anche Sinn Féin e il Dup dovessero trovare un accordo – spiega la professoressa – le attività repubblicane continueranno come prima, la New Ira ha radici storiche profonde e continuerà la lotta armata a prescindere dai mutamenti politici”.

 

Le cose non vanno meglio a Dublino, dove un governo c’è ma è molto fragile. Il premier irlandese Leo Varadkar non ha la maggioranza in Parlamento, e sopravvive grazie all’appoggio esterno dei nazionalisti di Fianna Fáil, ai quali è costretto a fare delle concessioni. Il governo di Dublino non si è mai impegnato a volere riunire l’Irlanda nel breve termine, ma ha lanciato una serie di messaggi in codice che vanno in quella direzione. Simon Coveney, vicepremier e ministro degli Esteri di Dublino, ha dichiarato in Parlamento di “volere rivedere l’Irlanda unita” prima di morire, riaprendo una ferita che si era rimarginata grazie agli Accordi del Venerdì Santo. La Brexit rischia di compromettere questo patto sociale, a Dublino come a Belfast. E’ ancora presto per parlare di un referendum sull’unità irlandese – non può essere autorizzato finché la maggioranza a Dublino e a Belfast rimane contraria – ma il tema è tornato nel dibattito pubblico, polarizzando gli animi su entrambi i fronti. I rapporti tra Dublino e Londra sono di nuovo tesi: sono riemersi vecchi rancori e antiche rivendicazioni, che vengono alimentate dalla stampa.

 

Quando l’Irlanda ha annunciato il proprio ingresso nell’Organizzazione internazionale della francofonia – un’associazione di 61 membri con il compito di promuovere la cultura francese – i giornali euroscettici si sono fatti quattro risate. “Quanto è strano vedere che gli irlandesi – solitamente così restii verso ogni segno di imperialismo – ora sono le cheerleader dell’imperialismo francese”, ha scritto Robert Hardman sullo Spectator alludendo con ironia all’uscita dell’Irlanda dal Commonwealth britannico oltre settant’anni fa. E ancora: “I membri dell’alleanza devono promuovere la cultura gallica e ‘favorire lo sviluppo della lingua francese (alcuni tra i 61 stati membri, come la Bulgaria e l’Armenia, non parlano francese, ndr)’”, scrive il giornalista per sottolineare che il matrimonio tra Irlanda e Francia nasce solo per ragioni di convenienza. L’articolo di Hardman, che rispecchia una tesi diffusa tra gli euroscettici conservatori, ha creato una crisi diplomatica tra Londra e Dublino. L’ambasciatore irlandese in Gran Bretagna ha scritto una lettera al direttore dello Spectator – settimanale conservatore, euroscettico e ultracritico nei confronti di Varadkar – accusandolo di aver seminato un sentimento “anti irlandese”. La risposta del magazine arriva una settimana dopo con un articolo intitolato: “Non è anti irlandese criticare Leo Varadkar”.

 

Il premier è il nemico giurato dei brexiteers e del loro vasto apparato mediatico, che lo accusano di essersi messo di traverso nella trattativa sulla Brexit. La priorità di Varadkar era quella di evitare la frontiera tra le due Irlande, e ha agito di conseguenza: è rimasto ancorato alla posizione comune europea, ha tenuto duro sul backstop, e finora gli è andata bene. Ha evitato l’hard border, il confine rigido – un grande successo diplomatico – anche se le resistenze dei conservatori hanno impedito di trovare una maggioranza a favore dell’accordo a Westminster. Anche l’alleanza con la Francia nasce da un calcolo politico: costruire nuovi legami per continuare a sopravvivere nel dopo Brexit. “La Gran Bretagna è stato il miglior alleato dell’Irlanda in Europa, assieme ai paesi baltici e ai nordici – spiega Connelly – Andavano d’accordo sulle tasse, sul mercato unico digitale, e la Brexit sarà una grave perdita per loro. Quindi è logico che l’Irlanda cerchi nella Francia un nuovo partner europeo”.

 

Il rischio di un confine tra Dublino e Belfast ha fatto tornare di moda l’idea di un referendum sull’unità irlandese

La premier scozzese Nicola Sturgeon teme che la Brexit abbia lo stesso effetto: l’isolamento. La Scozia rischia di restare intrappolata nel Regno Unito, e fuori dall’Unione europea. Così i nazionalisti di Glasgow sfruttano l’uscita dall’Ue per riaprire la vecchia questione dell’indipendenza, che sembrava archiviata dopo il referendum del 2014 (gli unionisti vinsero col 55 per cento). La Sturgeon vede la Brexit come un’imposizione esterna: la Scozia ha votato per il Remain nel 2016 con una grande maggioranza (62 contro 38 per cento), ma adesso è obbligata a uscire dall’Ue per volontà dell’Inghilterra profonda. La soluzione? Uscire dal Regno Unito per rientrare in un’unione più grande. La Sturgeon sogna una Scozia finalmente libera da Londra ma ancorata all’Ue e lo ha ribadito in un discorso ai rappresentanti dell’Assemblea nazionale scozzese lo scorso 24 aprile. La promessa di un nuovo referendum entro il 2021 ha creato un’ondata di entusiasmo: sono spuntati nuovi comitati elettorali, raccolte fondi, e associazioni indipendentiste. In Scozia non si parla d’altro. A Glasgow c’è stata una grande manifestazione per l’indipendenza sabato 4 maggio con decine di migliaia di persone in kilt che sventolavano la bandiera nazionale. La Sturgeon ha calibrato l’annuncio pochi giorni prima della conferenza nazionale dell’Snp, per fare un regalo ai suoi attivisti che sognano una Scozia indipendente.

   


Il discorso del primo ministro scozzese Nicola Sturgeon alla conferenza annuale dell'Snp lo scorso 28 aprile (Foto LaPresse)


 

Conservatori e laburisti sono contrari e hanno invitato Nicola Strugeon ad abbandonare la battaglia identitaria per concentrarsi sui veri problemi. “La Brexit ci ha già diviso abbastanza, un nuovo referendum sarebbe troppo polarizzante”, hanno detto conservatori e laburisti, per una volta insieme in difesa dell’unita britannica. Ruth Davidson, la carismatica leader dei conservatori in Scozia, non ha quasi mai parlato di Brexit nella conferenza di partito, battendosi invece contro l’indipendenza. Ma serve il consenso di Londra per convocare il referendum scozzese, e il governo oggi è molto contrario all’indipendenza. La May difende l’unità della Gran Bretagna, ma i suoi possibili successori la pensano diversamente. Jeremy Corbyn è uno storico sostenitore dell’unità irlandese, anche se oggi ha una posizione ambigua sul tema. I laburisti sono contrari all’indipendenza scozzese, ma se dovessero mai formare una coalizione con l’Snp a Londra – è improbabile, ma non impossibile – il secondo referendum potrebbe essere un prezzo da pagare. I conservatori invece si professano unionisti – il vero nome del loro partito è Conservative and Unionist Party – ma l’ala euroscettica potrebbe sacrificare questo valore sull’altare della Brexit. L’uscita dall’Ue senza accordo, la proposta di bandiera della corrente euroscettica dei Tory, comporterà un allontanamento di Belfast da Londra. L’Ue aumenterà i propri sforzi per evitare una frontiera tra le due Irlande – il backstop serviva proprio a questo – facendo scivolare Belfast più vicino a Dublino che a Londra, e scatenando un effetto domino anche in Scozia. A quel punto, la frammentazione silenziosa del Regno Unito, sotto la grancassa della Brexit, potrebbe essere inarrestabile.

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