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La “guerriglia” di Rory Stewart

Paola Peduzzi

Il parlamentare dei Tory cammina, parla, registra, pubblica, e sogna di obbligare il Regno Unito a darsi una via d’uscita

Milano. Nel Regno Unito delle fantasie, materia in cui i candidati alla successione di Theresa May sono ferratissimi, ce n’è una che suona così: “Sogno di chiudere i parlamentari inglesi in una stanza, chiamare un negoziatore internazionale, costringerli ad ascoltare per otto o nove ore ogni giorno esperti che portano prove di quel che è fattibile e quel che non lo è riguardo alla Brexit, e poi creare un sistema di voto che li obblighi a uscire di lì soltanto con una soluzione”. Questa fantasia ispirata a raro buon senso – trovare una soluzione! – suona come una perversione nel Partito conservatore dei brexiteers, ma a pronunciarla è un parlamentare dei Tory, Rory Stewart, che aspira a diventare il prossimo premier inglese, per davvero. Stewart, sottosegretario allo Sviluppo internazionale ed ex ministro dell’Ambiente nel governo Cameron, è il più improbabile dei candidati conservatori, e non soltanto perché ha come obiettivo numero uno quello di levare di torno, in un solo colpo, sia il no deal sia il secondo referendum. Posizionandosi in quel posto angusto che sta tra i due grandi poli della politica britannica, una Brexit brutale o una non-Brexit, Stewart ha iniziato una campagna per la leadership dei Tory che sta facendo impazzire i commentatori inglesi (e ci regala un divertimento insperato): s’aggira a piedi per Londra, annuncia sui social di essere nel tal posto e invita follower e passanti a parlare e confrontarsi con lui, intanto riprende ogni cosa, senza filtri, e pubblica tutto. La sua campagna “guerriglia”, come la chiama lui, sarà tutta così, ha intenzione di camminare e parlare, parlare e camminare, uscire dalla bolla di Westminster – è rinfrescante, dice – ed esplorare tutto quel che c’è dietro allo spettacolo deprimente che la leadership britannica ci propina da anni.

   

Il modello per lui non è nuovo: cammina da sempre, Stewart, che è, a 46 anni, “soldato-diplomatico-avventuriero-scrittore-politico”, come ha scritto il New Yorker in un ritratto del 2010 – e molti sostengono, poco benevoli, che manchi in questa sintesi la professione più importante, quella di 007 di Sua Maestà. Stewart ha scritto due bestseller sulle sue camminate: il più famoso si svolge in Afghanistan, dove ha lavorato per il governo inglese all’inizio della guerra post 11 settembre (è stato anche governatore della regione in Iraq presidiata dalle truppe inglesi nella campagna iniziata nel 2003), che ha un titolo che sembra il manifesto della sua campagna di oggi, “The places in between”, i posti che stanno nel mezzo. Stewart mischia la modernità dei social alla sua natura ottocentesca, gambe e occhi sul mondo, con un esito comico – ride molto anche lui, nelle riprese mosse, ride di sé, ha un’aria irresistibile da scienziato pazzo – ma allo stesso tempo serissimo. Perché davvero Stewart rappresenta un’alternativa: degli undici candidati alla leadership dei Tory è l’unico a essere a favore di una Brexit soft (nel 2016 era, come il suo capo David Cameron, per il remain) e l’unico ad aver detto pubblicamente che non lavorerà mai in un governo guidato da Boris Johnson. L’ex ministro degli Esteri – che ieri è stato chiamato in giudizio da un tribunale che lo accusa di negligenza in pubblico ufficio per aver propagandato la fantasia massima della Brexit, i 350 milioni di sterline che Londra darebbe ogni settimana all’Unione europea, lo slogan che tanta parte ha avuto nella costruzione delle fantasie brexitare – è il favorito nella corsa per la successione alla May, ma lo era anche nel 2016 e fu azzoppato da una congiura interna. I conservatori hanno preso il 9 per cento alle elezioni europee ma non sembrano toccati dal fatto che si stanno litigando un partito morto – o zombie, come ha scritto il Guardian, che forse è ancora più pericoloso, perché continua a muoversi e contagia tutto il sistema politico inglese – e sono pronti a scontri sanguinosi. Anche Stewart è rientrato già nello schema fratricida perché sarà sì improbabile, ma si è fatto notare e soprattutto è il testimonial del buon senso: per chi sa ancora distinguere la realtà dalle fantasie potrebbe persino essere credibile. Così ora tutti si chiedono se questo politico atipico che ha imparato soltanto di recente a pettinarsi sia stato messo lì da qualcuno come intralcio a qualcun altro, se insomma Stewart è lo strumento di una ben più grande congiura interna. Lui si è quasi offeso per queste indiscrezioni, ma poi s’è rimesso in cammino con le sue riprese movimentate e il sorriso di chi sa che un posto nel mezzo esiste davvero, è la promessa di riunire cinquecento persone pagate dal governo che discutano sette giorni su sette un piano ordinato di Brexit, la perversione moderata di un politico che da ragazzo votava il Labour e oggi rappresenta un Partito conservatore che non c’è più.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi