Boualem Sansal (immagine tratta da YouTube)

Boualem Sansal ci spiega com'è nata la collera dell'Algeria in piazza

Rolla Scolari

Nuove proteste contro il regime di Bouteflika, che perde pezzi. Così le manifestazioni sono diventate un movimento nazionale. La dittatura è come gli islamisti

Milano. Nel terzo fine settimana di protesta contro il quinto mandato dell’anziano e malato presidente Abdelaziz Bouteflika migliaia di algerini sono scesi in strada molto prima della fine della preghiera islamica del venerdì. Sono usciti di casa con le bandiere, quelle bianche, rosse e verdi dell’Algeria, non quelle dei partiti. Hanno riempito le strade non soltanto della capitale. La protesta si organizza: gli studenti di Medicina vestono simboli per farsi riconoscere, in caso di necessità. Ci sono servizi di sicurezza spontanei, appelli sui social media a uscire di casa ma anche a ritirarsi dalle strade a una certa ora, dopo averle ripulite. L’Algeria si abitua alla protesta, che non si ferma neppure durante la settimana, in un’atmosfera di festa, con cortei fra i tavolini dei caffè all’aperto: sit-in universitari, scioperi di categoria, marce di avvocati si susseguono. Ogni giorno nel paese il dissenso trova nuovi modi per mantenere la pressione su un regime che sembra non avere ancora trovato una ricetta al malcontento popolare e che per ora, con una lettera del presidente, ha promesso elezioni anticipate senza Bouteflika che però avverranno soltanto in seconda battuta, dopo il voto di aprile.

 


Qui trovate l'intervista integrale di Rolla Scolari a Boualem Sansal


  


Foto LaPresse


  

La proposta sembra non aver calmato la protesta. E in queste ore “in Algeria tutto è possibile” – ci dice Boualem Sansal, al telefono dalla sua casa di Boumerdès, 50 chilometri a est della capitale. Censurato nel suo paese, minacciato dagli islamisti, lo scrittore algerino – che ha ricevuto il Grand Prix du Roman de l’Académie française per il suo “2084. La fine del mondo” (Neri Pozza) – non è stupito dalle proteste e dalla loro ampiezza: “In Algeria nessuno è rimasto sorpreso dalla protesta. E’ da anni, da quando il presidente Bouteflika si è ammalato, che ci si dice ‘Basta’. E oggi lui è totalmente nell’impossibilità di governare. Davanti al silenzio del potere, la collera è salita, e si è tradotta in manifestazioni ovunque fin dal 2016: si protestava per la mancanza d’acqua, per i tagli di corrente elettrica, e si sapeva che prima o poi queste manifestazioni separate si sarebbero unite in un movimento nazionale. Mi chiedo come mai non sia accaduto prima”. Se il romanzo più celebre di Sansal in Italia è “2084”, lo scrittore fa emergere tutta l’asprezza della vita nel paese in molte altre sue opere. In “Harraga”, romanzo del 2005, per esempio, evoca il contesto di desolazione sociale ed economica che ha portato generazioni intere a diventare appunto “harraga”.

 

Il termine in arabo algerino indica i migranti, che oggi sono ricordati – quelli morti nel tentare la traversata del Mediterraneo verso l’Europa – negli slogan della piazza.

 

La collera che riempie le strade dell’Algeria è antica, racconta Sansal. E’ pesante per i giovani quanto profonda per la sua generazione. Lo scrittore, che ha 69 anni, individua le origini della rabbia addirittura nell’anno dell’indipendenza dalla Francia, il 1962. “La guerra d’indipendenza ha fatto un milione di morti”. “Abbiamo ottenuto l’indipendenza e sono arrivati i militari. Gli algerini li guardavano con amore e invece ci hanno tolto le libertà: quello che si poteva fare durante la colonizzazione – fondare partiti, sposarsi con chi si voleva, viaggiare, avere un passaporto –, ci hanno detto che non si poteva più fare. Ci è stato rifiutato il diritto d’essere cittadini”.

I giovani che oggi riempiono le piazze e che sono la maggioranza della popolazione – il 50 per cento degli algerini ha meno di 30 anni – hanno conosciuto soltanto questo. O il terrore dell’alternativa, sfruttato come spettro costante dal regime: i massacri, le decapitazioni, le violenze degli estremisti islamici negli anni della guerra civile (1991-2002). Per loro regime – come per lo stesso Sansal, un tempo funzionario statale e oggi autore censurato, controllato dalle autorità e minacciato dai fondamentalisti islamici per i suoi libri e la sua critica dell’islam – significa routine, ci spiega lui. “In Europa, la parola repressione è intesa nel senso di repressione poliziesca, come quando la polizia lancia i lacrimogeni contro i gilet gialli in Francia o arresta i manifestanti. Questa è soltanto la punta dell’iceberg qui. La repressione in un regime come l’Algeria è tutti i giorni, in tutti gli aspetti della vita: c’è una repressione burocratica, per esempio. Per ottenere un passaporto occorrono mesi di carte, di corse. Oppure, sin dall’età di cinque anni si partecipa a riunioni, si è irregimentati negli scout, nella gioventù del Fronte di liberazione nazionale (FLN, storico partito dell’indipendenza, ndr), sono inculcati il culto del presidente, dell’islam, dell’arabismo, l’odio per l’occidente, quello per gli ebrei, per i marocchini (l’Algeria e il Marocco sono in disputa sullo status del Sahara occidentale, ndr). E’ un po’ George Orwell in ‘1984’. Poi, sei irreggimentato in simili organizzazioni a scuola, all’università, nei sindacati quando entri nel mondo del lavoro. Sei obbligato ad assistere a riunioni, discorsi, attività politiche. Quando ricevi una convocazione amministrativa hai paura. Ti dicono ‘E’ convocato per un affare che la riguarda’, e passi tutta la serata a chiederti ‘ma che cosa sarà mai questo affare che mi riguarda?’. E poi è una roba di poco conto, avevi depositato le carte per il passaporto e mancava un documento. Aggiungi a questo che l’Algeria è un paese arabo-musulmano, dove vige la dittatura della religione: se vado al ristorante con mia moglie devo portarmi dietro il libretto di famiglia per provare, nel caso mi fermino a un posto di blocco, che sono sposato con la donna con cui viaggio in automobile. Siamo obbligati a digiunare nel mese di Ramadan, quando i ristoranti sono chiusi, e gli algerini non si possono sposare con chi vogliono (in Algeria le donne musulmane non possono sposare uomini non musulmani, ndr)”.

 

Questo potere d’irreggimentare che il sistema politico utilizza per immobilizzare il dissenso inizia forse in queste ore a mostrare le prime crepe. Organizzazioni e associazioni che per tradizione sono in Algeria parte dell’infrastruttura del potere hanno iniziato da giorni a togliere il loro sostegno a un quinto mandato di Bouteflika, a schierarsi con i manifestanti. Hanno iniziato gli uomini d’affari del Forum des Chefs d’Entreprise, una sorta di Confindustria locale, poi il maggior sindacato nazionale, l’Ugta. Il capo degli scout musulmani ha dichiarato il suo appoggio alla protesta. Il colpo più duro al regime, che trae la sua legittimità dalle credenziali rivoluzionarie della lotta anti coloniale, è arrivato quando due organizzazioni simbolo di quegli anni, che raggruppano i veterani della guerra di liberazione, hanno dichiarato il proprio sostegno alla “mobilitazione senza precedenti” e salutato “la saggezza del popolo”. “Un popolo che – ci dice ancora Sansal – ha accumulato 57 anni di sofferenze con questo regime, e oggi scende in strada molto gentilmente, con un unico slogan. Grida contro il quinto mandato di Bouteflika, non contro i militari, non contro il regime. I manifestanti hanno visto che in piazza non c’era repressione. E hanno scoperto il piacere di protestare, ogni giorno, ovunque”.

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