La gioia dei manifestanti di Algeri dopo il ritiro della candidatura di Bouteflika alle elezioni (foto LaPresse)

Nel palazzo di Algeri

Rolla Scolari

Gli algerini scendono ancora in piazza, il passo indietro del rais Bouteflika è soltanto cosmetico. I nomi, i volti, le leggende e gli obiettivi dei tre cerchi del potere

La piazza algerina non ha interrotto la protesta, ha soltanto aggiornato gli slogan. Se prima scandiva le sue marce al grido: “No a un quinto mandato”, ora urla “No al prolungamento del quarto mandato” del presidente Abdelaziz Bouteflika. L’anziano leader, tornato in patria dalla clinica svizzera che lo ha in cura, e dove si trovava durante le tre settimane di dissenso che hanno scosso il paese, ha scritto un’altra lettera alla nazione: nella prima, più di dieci giorni fa, aveva detto che si sarebbe candidato alle elezioni previste per il 18 aprile, e che avrebbe poi indetto un voto anticipato al quale non avrebbe partecipato. Il suo scritto non ha calmato la piazza, che ha continuato i suoi cortei, le sue marce, i suoi sit-in quotidiani dalla capitale agli angoli più remoti della nazione.

  

  

#LevateviSignificaLevatevi è l’hashtag trend da giorni su Twitter, assieme a quello che chiama alla protesta di domani

Nell’ultima lettera, arrivata lunedì sera dopo altri giorni di protesta, Bouteflika ha invece annunciato di ritirarsi dal voto, ma anche di sospenderlo. Se l’uscita di scena come candidato dell’anziano e malato rais, che ha 82 anni, è un successo per la piazza, finora pacifica, ordinata, coesa e ancora immune da simboli di movimenti, partiti, gruppi politici o religiosi, il posticipo delle elezioni, benché imbellettato da promesse di una transizione democratica e un’assemblea costituente, significa per ora che il presidente resta a palazzo.

 

Fin dalle prime ore dopo il passo indietro del regime, tra la festa dei clacson e dei tamburi per la strade di Algeri, sono spuntati i cartelli a riassumere l’umore della protesta: “Bouteflika non se n’è andato, non se n’è andata la sua gang”, come spesso è definito lo stretto entourage del presidente, considerato protagonista del potere. #levatevisignificalevatevi è l’hashtag che da giorni è trend su Twitter in Algeria, assieme a quello che chiama alla manifestazione di domani, la quarta di fila nel venerdì della preghiera islamica, il giorno del dissenso, delle marce, dei cortei nel mondo arabo.

 

La mobilitazione è comunque costante in Algeria, pervasiva: gli studenti dei licei e delle università sono scesi in strada martedì e mercoledì, sono stati raggiunti dai loro insegnanti, dai professor ad Algeri, mentre a Costantina, nell’est del paese, hanno manifestato i magistrati. Ci sono stati scioperi di categorie e cortei sindacali. E se prima si chiedeva a Bouteflika di andarsene, oggi lo si continua a fare – i cartelli con il 5 barrato in rosso sono stati sostituiti da quelli con un 4+ barrato – aggiungendo alla lista degli indesiderati anche Noureddine Bedoui, il primo ministro appena nominato in quel rimpasto di governo che avrebbe dovuto, nei piani del regime, soddisfare la piazza. E che non ha avuto l’effetto desiderato.

  

Il generale Salah è una chiave per capire la direzione che prenderà la transizione. Ma l’esercito non è compatto

Il nuovo ticket alla guida dell’esecutivo del rimpasto, Bedoui e il vice-premier Ramtane Lamamra, ha già ricevuto la bocciatura della piazza. Era prevedibile: i due sono parte integrante di quel sistema che la popolazione fatica a tollerare. Il neo premier è un prodotto dell’intricata amministrazione algerina, Lamamra è consigliere diplomatico del rais, ministro degli Esteri. I manifestanti sfoggiano cartelli in cui chiedono alla “gang” di togliersi di mezzo. La stampa internazionale parla di “clan” Bouteflika. D’altronde dal 2013, da quando ha avuto un ictus, il presidente è indebolito. Non è però né una gang né un clan quello che controlla oggi il potere, ci spiega Hasni Abidi, politologo, direttore del Centre d’études et de recherche sur le monde arabe et méditerranéen (CERMAM) di Ginevra. In Algeria, “il potere è sempre stato gestito in maniera collegiale, ed è questa la sua forza, agiscono tre poli: la famiglia Bouteflika, l’esercito, i gruppi d’interesse economico. Esiste un equilibrio di forza tra questi tre gruppi, e Bouteflika è il direttore d’orchestra. Dal 2013, da quando si è ammalato, questi attori non hanno trovato un candidato che mettesse tutti d’accordo. Hanno quindi preferito tenere il presidente per un quinto mandato. Non hanno però mai pensato che la piazza potesse manifestare con una tale forza da diventare un quarto polo”.

 

 

Nella sua residenza di Zeralda, blindato complesso di ville nei sobborghi ovest di Algeri, Bouteflika ha sempre vissuto circondato dai fratelli. Mustafa, morto nel 2010, era il suo medico personale; Zohr è la “sorella protettrice”; Abderrahim detto Nacer è l’inamovibile segretario generale del ministero della Formazione professionale e suo confidente; Abdelghani è definito in documenti diplomatici americani, emersi attraverso Wikileaks, “un rapace”, assieme alla “voce” di Bouteflika, “Monsieur Frère”, Said, il gracile fratello minore. “Dopo l’ictus del 2013, Bouteflika è rimasto direttore d’orchestra, ma senza uno spettacolo, perché non si è più fatto vedere in pubblico. Il presidente è debole ma non ha mai perso lucidità, e fa passare i propri messaggi attraverso Said”, che non a caso ritorna negli slogan della piazza.

 

Poi c’è l’esercito. Bouteflika è arrivato alla presidenza nel 1999 dicendo di non voler essere un leader dimezzato. E così ha fatto di tutto per allontanare i militari dalla politica. Il suo più cruciale alleato oggi, il capo di Stato maggiore, Ahmed Gaid Salah, era già in pensione quando è stato scelto dal rais. Gli deve tutto. E sa bene che se cade il leader è il secondo sulla lista. Allo stesso tempo, dice Abidi, “l’esercito come istituzione non vuole tornare sulla scena come durante la guerra civile, un periodo che gli è costato molto per la sua immagine. Non vuole più sparare sulla popolazione”. I militari algerini sono stati infatti accusati di crimini contro i civili durante i sanguinosi anni del conflitto intestino, terminati con l’arrivo al potere di Bouteflika, cui è dato il merito d’aver saputo traghettare un paese ferito verso una nuova era. Un’altra figura centrale è il generale Athmane (Bachir) Tartag, capo di quei Département de Surveillance et de Sécurité – DSS – che supervisionano la totalità delle agenzie di intelligence.

 

Nella sua residenza di Zeralda, complesso di ville nei sobborghi ovest di Algeri, Bouteflika ha sempre vissuto circondato dai fratelli

Se il generale Salah, nell’equilibrio dei tre poli d’interesse, è una chiave per capire la direzione che prenderà la transizione in Algeria, molti sono gli osservatori che fanno notare come l’esercito non sia però un’entità compatta. A prova di questo ci sarebbero dimissioni e pensionamenti più o meno volontari negli anni della presidenza Bouteflika. Il capo della polizia e a lungo alleato del rais, Abdelghani Hamel, è uscito di scena dopo uno scandalo a giugno. Nel 2015, è stato sostituito dopo anni di regno il potente capo dei servizi, il famigerato generale Mohamed Mediene, conosciuto in Algeria come Toufik. Per lungo tempo, Toufik è stato una figura semi-leggendaria, avvolta nel segreto e soprattutto nel terrore, protagonista della lotta ai fondamentalisti islamici negli anni della guerra civile e poi “kingmaker” dell’ombra. Nessuno conosceva allora il suo volto. E la leggenda popolare voleva addirittura che chi per sfortuna lo intravedesse pagasse con la vita. L’agenzia di intelligence è stata inoltre frammentata: per molti un modo della presidenza per indebolire “lo stato profondo”.

 

Il terzo polo del potere algerino è quello economico, legato ai gruppi d’interesse. Il leader Bouteflika ha voluto evitare una dinamica di costante faccia a faccia tra presidenza ed esercito, e ha per questo dato spazio d’azione a un ristretto gruppo di uomini d’affari, con la creazione del Forum des chefs d’entreprises, una specie d Confindustria locale statale che controlla, spiega Abidi, “il 62 per cento del settore privato algerino, televisioni, giornali, che finanzia campagne elettorali di politici e deputati vicini al leader”. Si tratta di “una trentina di uomini d’affari cui il potere civile garantisce contratti e appalti in cambio di sostegno al presidente, un po’ come accade in Egitto tra politica e un esercito che controlla l’economia”. Se in queste settimane di manifestazione, molti membri del Forum hanno dato le dimissioni con il crescere della protesta, il presidente Ali Haddad, molto vicino al “Monsieur Frère” Said, resta al comando.

 

I tre poli del potere collegiale algerino hanno quindi fallito nell’intercettare l’origine della protesta, l’esistenza stessa di un quarto attore capace di cambiare rodati equilibri. La leadership antica non conosce la nuova generazione in piazza – il 50 per cento della popolazione algerina ha meno di 30 anni – e non sa che studenti liceali e universitari non sentono più quella paura degli anni neri del terrorismo, perché poco o nulla ricordano della guerra civile che ha invece marchiato generazioni di algerini.

 

Il regime non si rende conto che le concessioni formulate finora sono insufficienti e fuori tempo massimo. Ma continua a provarci

Il cosmetico passo indietro di Bouteflika, che non si candida ma consegna al regime le sorti della transizione, è preoccupante, dice Abidi. Si entra ora infatti in un territorio sconosciuto, in un’era che dipende da come evolverà la protesta, da chi ne prenderà parte (se figure più o meno vicine al leader). La popolazione non vuole che la transizione sia gestita dal potere. “Il regime è stato maldestro, avrebbe dovuto presentare un governo tecnico, ma non accetterebbe di farlo con personalità completamente nuove. Come alla piazza, anche al sistema occorrono tutele: quindi sono ora necessarie garanzie reciproche, negoziati per arrivar per esempio a un sistema che includa sia persone nuove sia figure che fanno già parte dell’amministrazione statale, dei suoi strati più bassi, che non siano compromesse come per esempio Ali Haddad o l’ex premier Ahmed Ouyahia”, dice Hasni Abidi.

 

Il regime algerino non si rende conto che le concessioni formulate finora sono insufficienti e arrivano fuori tempo massimo. Continua però a provarci: sicurezza nazionale e stabilità della regione sono le ragioni dietro al posticipo del voto, ha spiegato ieri, intervistato da quattro giornalisti dei mass media nazionali, il vice premier Lamamra in televisione. “Il presidente ha deciso che è venuto il momento di dare la parola al popolo algerino”, ha detto scegliendo parole che sorprendono, che raccontano, ancora una volta dopo le stonature di testardi autocrati arabi in bilico del 2011, le difficoltà di antiche leadership di comprendere la portata del dissenso ai loro danni. Il vicepremier ha risposto alle domande della stampa e dato dettagli sulla lettera del presidente, sulla transizione, sulla promessa di una conferenza nazionale che terrà conto della demografia del paese, quindi accoglierà tanti giovani e tante donne, e ha rassicurato chi, fuori e dentro l’Algeria, teme il ritorno di un passato violento: “Occorre essere responsabili ma non occorre preoccuparsi. Abbiamo attraversato molte prove. Ne siamo usciti più forti. Abbiamo la possibilità di ritrovarci nonostante la diversità delle opinioni”. E’ stata la prima volta, ieri, che la leadership ha parlato, e non scritto, che ha messo la faccia in risposta alle proteste, e garantito che non ci sarà un vuoto di potere, che le istituzioni funzioneranno fino al voto anticipato, di cui non è stata fornita ancora una data. Negli stessi istanti, su un altro canale, andava in onda un’intervista a Lakhdar Brahimi, diplomatico algerino, ex inviato delle Nazioni Unite per il conflitto in Siria.

 

La risposta popolare alla transizione di regime è una nuova protesta della piazza, domani. A complicare però il quadro del nuovo confronto tra un potere antico e collegiale e una piazza giovane e per ora non connotata c’è un’opposizione anemica, indebolita nei decenni dall’opera delle autorità. I partiti, gusci vuoti e poco rappresentativi, non rispondono infatti alle esigenze delle piazza e non sono in grado di produrre una leadership alternativa. “E’ quello che rende l’attuale situazione particolarmente complicata. La strada ha il potere, ma le manca il metodo per passare alla tappa seguente – ha scritto il Monde in un editoriale – Non ci sono né Havel a issarsi sul trono, né un Adolfo Suarez post-franchista per condurre questa indispensabile transizione. E’ questo il compito che incombe oggi su opposizione e potere algerini: trovare attori sinceramente capaci di costruire su questo straordinario movimento spontaneo le basi di un avvenire scelto liberamente”.

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