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Il Venezuela è uno stato fallito e va salvato

Paola Peduzzi

Basta con l’ideologia, la destra, la sinistra, il volere del popolo o l’imperialismo 

Milano. Giù le mani dal Venezuela, dice Nicolás Maduro, sventolando cartelloni e hashtag, noi non siamo il Vietnam, gli americani “non ci invaderanno”, terremo chiuse le frontiere, non passerà nessuno, non faranno entrare il loro “cavallo di Troia”. Il cavallo di Troia sono i convogli che trasportano 60 milioni di aiuti in cibo e medicine (negli ospedali non c’è l’acqua, figurarsi i farmaci) forniti da Stati Uniti, Canada e Colombia, ma il regime di Maduro ha bloccato il ponte Tienditas, che collega la cittadina in Colombia (dove ora sono fermi gli aiuti) e il Venezuela: i due enormi container azzurri e il rimorchio color rame piazzati in mezzo alle carreggiate per bloccare il passaggio sono la sintesi impietosa e brutale della crisi venezuelana, una crisi umanitaria fatta dall’uomo (da uno in particolare: Maduro) e la ragione per cui la neutralità non è un’opzione.

 

Abbiamo discusso delle fratture ideologiche mondiali nei confronti del Venezuela, del disastroso modello socialista rivoluzionar-bolívariano, della tentazione turpe di molta sinistra di continuare a difenderlo, dell’approccio italiano, il più deprimente di sempre e di tutti, dell’antiamericanismo, della politica statunitense in Sud America – abbiamo sviscerato ogni aspetto diplomatico, politico, sociale, storico della questione venezuelana, ma l’unico motivo inoppugnabile a sostegno del rovesciamento di Maduro è quello umanitario. Destra e sinistra c’entrano poco se la prima ragione delle proteste del popolo venezuelano riguarda i bisogni primari. Secondo l’Observatorio Venezolano de Conflictividad Social, nel 2018 i venezuelani hanno fatto 35 proteste al giorno (12.715 in tutto), chiedendo accesso ad acqua, elettricità, gas e naturalmente cibo, e poi salari aumentati e maggiori diritti per i lavoratori.

 

Sempre nel 2018, il regime di Maduro ha alzato il salario minimo sei volte, per contrastare l’inflazione al centomila per cento e il crollo del pil del 47 per cento: un salario medio oggi è 3.600 volte più alto del salario del febbraio di un anno fa (6,7 dollari) ed è sempre da fame. La produzione del petrolio è passata da 3 milioni di barili al giorno a 1,5, e per compensare l’assenza di introiti la Banca centrale ha iniziato a battere moneta a ritmi inimmaginabili (dal 1976 al 2018 la media era di 1.834,48 milioni di bolívar all’anno, nel 2018 l’offerta di moneta è pari a 408.016,99 milioni di bolívar). Non è cambiato nulla, le proteste sono continuate, sempre più intense, e mentre Maduro avrebbe potuto almeno tentare di stimolare la produzione e la domanda interne invece che drogare l’economia di inflazione, ha scelto di nazionalizzare, di sostituire i manager più esperti, di mettere le aziende di stato sotto il controllo dell’esercito, dando potere e soldi ai generali che gli garantiscono la sopravvivenza. E che continuano a farlo: in nove giorni, dal 21 al 30 gennaio, mentre le cancellerie mondiali facevano i loro calcoli per stabilire come fosse opportuno posizionarsi, sono state arrestate 939 persone (gli ultimi dati disponibili).

 

Tutto quel che Maduro ha fatto è stato, come dice lui, “in nome del popolo”. Quel popolo che sta dando vita alla più grave crisi migratoria del continente degli ultimi trent’anni. Soltanto nell’ultimo anno un milione e mezzo di persone sono fuggite dal Venezuela, quelle che potevano permetterselo (tutti i paesi intorno hanno dovuto rivedere le politiche di accoglienza) e la classe media del paese oggi non esiste più: l’87 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà, dei 15 mila bambini sotto i cinque anni di età monitorati dalla Caritas del Venezuela, il 73 per cento presenta deficit nutrizionali, il 13 malnutrizione acuta.

 

Da anni ci passano sotto gli occhi immagini, storie, testimonianze dal Venezuela che continuiamo a ignorare, intrappolati nei calcoli politici, nei pregiudizi ideologici e nell’indifferenza, che è l’origine principale di questa crisi umanitaria che gli esperti definiscono “men made”, fatta dagli uomini – il Venezuela non è in ginocchio per una carestia, un tornado o un’inondazione, ma perché gli uomini, Maduro e i suoi, l’hanno ridotto così. In un caso come questo – uno stato fallito – non c’è distinzione tra interventismo di destra o di sinistra, non c’è discussione che tenga sulla lotta anti imperialista o sulla solidarietà populista. C’è un paese che ha bisogno di aiuti esterni, subito, e no: la neutralità non è un’opzione.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi