Julian Assange (foto LaPresse)

Il paladino mica tanto

Daniele Raineri

L’inchiesta sulla collusione russo-trumpiana gira e rigira attorno ad Assange, ex eroe della trasparenza

New York. C’è un lato molto interessante dell’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller che riguarda la presunta collusione nel 2016 fra il governo russo e la campagna elettorale di Donald Trump ed è il ruolo di Julian Assange. Come si sa, Assange è un autoproclamato attivista australiano per la trasparenza che pubblica sul suo sito Wikileaks materiale riservato – e ottenuto da fonti che hanno agito in modo illegale – per imbarazzare i governi e le istituzioni. In Italia gode ancora di uno status quasi eroico di combattente per la libertà d’informazione, ma con il trascorrere del tempo è sempre più chiaro che la sua cosiddetta battaglia per la trasparenza è in realtà molto opaca.

 

Prima delle notizie però è necessario fare un breve punto per ricordare dove siamo arrivati. Nell’ottobre 2016 Wikileaks pubblicò su internet le mail del Partito democratico americano, le stesse che erano state trafugate qualche mese prima dagli hacker dell’intelligence russa. Assange ha sempre sostenuto di non averle ottenute dagli hacker russi ma da una fonte terza – tuttavia la tesi dell’inchiesta del procuratore Mueller è che le abbia ricevute da Guccifer 2.0, il nome in codice di un hacker dietro al quale si nascondeva l’intelligence russa, e questa era ormai un’informazione pubblica quando Wikileaks decise di andare avanti e pubblicare quelle mail. Ora sono arrivate due novità. La prima è che il Guardian ha pubblicato un articolo molto vago in cui si dice che Paul Manafort, che nel 2016 fu capo della campagna elettorale di Trump e oggi sta per andare in prigione per una serie di accuse gravi, corruzione inclusa, ha incontrato in segreto Assange a Londra per tre volte, nel 2013, nel 2015 e nel marzo 2016. Se fosse vero, ed è un grosso se, Assange apparirebbe come un uomo in contatto da una parte con l’hacker Guccifer (che erano i servizi russi) e dall’altra con il capo della campagna elettorale di Trump, Paul Manafort. Il sito Wikileaks ha reagito con sdegno contro l’articolo, ha sfidato il Guardian a provare che dice il vero per la somma di un milione di dollari e ha annunciato una raccolta fondi per aprire una causa contro Luke Harding, che è il giornalista che ha firmato il pezzo.

  

La seconda novità è che secondo le carte dell’inchiesta un tale Jerome Corsi, che collaborava con Roger Stone, consigliere della campagna elettorale di Trump, nell’agosto 2016 era al corrente che Wikileaks avrebbe dato in pasto al pubblico le mail rubate del Partito democratico con dieci settimane di anticipo. Scrisse in una sua mail a Stone: “Il nostro amico nell’ambasciata le farà uscire in due grosse tranche, una adesso e una a ottobre”. Il “nostro amico nell’ambasciata” si riferisce presumibilmente al fatto che Assange dal 2012 vive dentro l’ambasciata dell’Ecuador a Londra per non esporsi al rischio di essere arrestato (per accuse che non c’entrano con la sua attività). Avvisato da Corsi, Stone si lasciò sfuggire più volte che Assange aveva materiale compromettente contro Hillary e che presto l’avrebbe diffuso. A una radio disse che “mi aspetto che Wikileaks faccia uscire presto il materiale” e in un tweet scrisse che era arrivato il turno di John Podesta, capo della campagna di Hillary, di essere fregato senza rimedio. Come faceva a saperlo in anticipo? Era in contatto con qualcuno a Wikileaks? Più l’inchiesta di Mueller procede e più ricorre il nome di Assange.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)