Cina, il negozio di Dolce & Gabbana a Pechino (Foto LaPresse)

La (brutta) pubblicità di D&G e la stagione della suscettibilità

Giulia Pompili

Esagerare le reazioni per trarne vantaggio: chissà quanto costerà ai due stilisti la prossima sfilata in Cina

Roma. Se entro in un sushi bar e chiedo una forchetta sono considerato più maleducato o più razzista? E se invece sono un uomo di mondo, e il sushi lo mangio con le bacchette, non è che poi qualcuno mi accusa di appropriazione culturale? E adesso che ho iniziato questo articolo sulla Cina citando il sushi, che è giapponese, qualcuno si offenderà? La questione non è mica esasperata per motivi retorici: il nuovissimo mondo è ormai popolato dagli indignati permanenti, e tanto vale lasciar perdere il sushi, e nutrirsi di cibo autoctono surgelato rigorosamente acquistato in giorni feriali. No, non è solo una questione alimentare. Prendete quel che è successo a Dolce & Gabbana, uno dei brand di moda italiani più famosi nel mondo, in Cina, cioè nel mercato del lusso più attrattivo del momento (rappresenta il 33 per cento del mercato globale da 260 miliardi di euro all’anno, con una crescita stimata tra il 3 e il 5 per cento all’anno).

  

 

Da una parte abbiamo un’azienda italiana, occidentale, che si butta a peso morto sul Dragone per massimizzare i profitti lì dove c’è da guadagnare, probabilmente senza studiare a fondo le dinamiche sociali del territorio da aggredire. Dall’altra parte c’è la classe media cinese, trasformata dagli ultimi anni di crescita economica, che usa i social network – cioè l’opinione pubblica – e indirizza il mercato con campagne d’indignazione globali, tra patriottismo e nazionalismo. E’ iniziato tutto cinque giorni fa, con una campagna pubblicitaria. In tre diversi video diffusi online dai profili ufficiali di Dolce & Gabbana, si vede una ragazza asiatica che tenta di mangiare prima una pizza, poi un cannolo siciliano, poi un piatto di spaghetti, senza sapere bene come usare le kuaizi, le bacchette orientali. La didascalia dei video recita: “Eating with Chopsticks”, mangiare con le bacchette.  

  

A parte il doppio senso triste del cannolo extrasize, e la voce narrante che domanda retoricamente alla modella: “E’ troppo grande per te, vero?”, rimando al luogo comune sulle dimensioni asiatiche (#MeToo dove sei), le clip pubblicitarie sono effettivamente respingenti, ma per un motivo semplice. Sono stupide. Promuovere il made in Italy in Cina insistendo sulla banalità dello “scontro tra culture” poteva essere efficace (lo era?) vent’anni fa, ma non oggi. Una pubblicità sbagliata non è un’offesa per un paese intero, è un costo per l’azienda che la sbaglia. I video per cinque giorni sono stati oggetto di dileggio da parte di un numero impressionante di utenti dei social network cinesi (parliamo del più grande mercato anche in questo, Weibo, il Twitter cinese, ha più di 600 milioni di utenti).

  

Yuxxqiuz scrive su Instagram: “Qualunque asiatico usa le bacchette meglio di voi! Andate fuori dalla Cina, il mercato cinese non vi vuole! I cinesi non vi vogliono! Abbiamo usato le bacchette per centinaia di anni, non abbiamo bisogno che voi ce lo insegnate!”, tsangzs scrive: “La cosa più ridicola è che la modella non è nemmeno cinese, è coreana!” (insulto sottile). E poi razzisti, schifo, andatevene, e tutto il campionario. Abbiamo visto simili reazioni in altre circostanze: i social network sono serviti a Pechino per boicottare i prodotti giapponesi o sudcoreani quando le relazioni diplomatiche tra Pechino, Tokyo o Seul non andavano bene.

  

Ed è la stessa Cina ad aver prodotto, in passato, spot più o meno considerati razzisti, tra cui uno indimenticabile: un paio di anni fa un’azienda di detersivi per le lavatrici aveva diffuso un video in cui la donna apriva la porta a un uomo di colore, poi lo metteva in lavatrice, e quello usciva fuori sbiancato, nel senso di asiatico. I video di Dolce & Gabbana erano parte della campagna di promozione di un evento D&G a Shanghai, “The Great Show”, in programma ieri sera. Prima boicottato dalle star della moda cinesi, e poi cancellato. Anche perché Diet Prada, l’account di moda più famoso del mondo, ha pubblicato ieri alcuni messaggi privati di Stefano Gabbana, in cui si è detto pronto a confermare ovunque “che paese di m… sia la Cina”.

  

Poi ovviamente sono arrivate le scuse, “ma no, noi amiamo la Cina”, anzi peggio: “Siamo stati hackerati!”, e qualcuno ha tirato in mezzo l’arte del pengci, della porcellana rotta, nella sua applicazione diplomatica: metti la porcellana di poco valore negli scaffali bassi per chiedere al cliente distratto di pagare i danni; provoca l’indignazione generale, fosse anche pretestuosa, per ottenere vantaggio nel negoziato. Chissà quanto costerà a D&G la prossima sfilata in Cina.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.