Foto LaPresse

Un anno da indignati

Manuel Peruzzo

Dalla pizza di Cracco all'acqua della Ferragni, passando per la pubblicità della Chicco, i vaccini di Zaytsev e la felpa di H&M. Cosa ne è stato delle rivolte del web e delle bufere social?

Il villaggio globale è sempre più indignato. Non passa giorno senza una rivolta del web o una bufera social, che poi in inglese suona meglio: shitstorm. È un format, un contenuto, una rubrica fissa con cui riempire le bacheche e svoltare i tempi morti. A volte sono proteste che nascono dal basso, come quando De André interpretato da Marinelli sembrava Totti (Marinelli-De André, la rivolta dei genovesi sull’accento dell’attore, Il Secolo XIX), altre volte i giornali prendono quattro utenti che discutono pro o contro X e confezionano un caso (“Campobasso un posto sfigato”. Imbarazzo a Masterchef, rivolta social, Leggo). Internet è quel posto dove la politica identitaria incontra il diritto alla lagna, e dove si protesta per ogni rivendicazione del momento che serve a definirti come un tempo facevano i dischi o i gruppi punk. Si è costantemente sotto scrutinio. I passi falsi servono a identificarti: stai contro x o contro y? Come scrive Jon Ronson in I giustizieri della rete: “Ogni giorno salta fuori qualcuno che veste i panni del nuovo, magnifico eroe, o al contrario del mostro raccapricciante”.

 

 

I social sono un palcoscenico di finti drammi (sempre Ronson). Se è vero quanto sosteneva David Hume, cioè che il coinvolgimento morale diminuisce con la distanza, è vero anche il contrario, come scrive Thomas L. Friedman sul New York Times in “The Age of protest”. Oggi che siamo tutti connessi ci sentiamo direttamente e costantemente coinvolti per qualsiasi cosa, e pronti a combattere: non condivido la tua idea ma farò di tutto per farti sapere la mia. Un creativo in Svezia può scatenare un uragano in Africa. A gennaio H&M fotografa un bambino con la maglietta “Coolest monkey in the jungle” (foto sopra) e in Sud Africa gli attivisti devastano i negozi in protesta. Una cacciatrice americana si fotografa sorridente con la giraffa morta e da tutto il mondo la insultano. Dolce & Gabbana dicono agli asiatici che hanno il cannolo piccolo e gusti alimentari controversi e mezzo mondo vuole posizionarsi, dire la propria, occupare lo spazio della ragione. Twittare “Stefano Gabbana muori!!!!!!” in tutte le lingue.

 

  

Esiste anche un’indignazione sovranista, autoctona, italianissima. Il 2018 è iniziato con lo psicodramma dei sacchetti per la frutta sfusa a pagamento (una cosa che in qualsiasi bar di provincia si sarebbero rifiutati di commentare per noia). La presa della Bastiglia è avvenuta i primi di gennaio su Twitter, Facebook, sotto agli articoli, che sono le piazze in cui riversare la propria infelicità. “Non comprerò più frutta e verdura” “Infilerò i pomodori nel guanto” “Usciremo dall’Europa e ci libereremo dei PDioti e dei comunisti e di tutti i radical chic”. Circolavano foto d’arance pesate singolarmente, piene d’etichette: invano perché il costo del sacchetto era incluso nella pesatura. In pochi avevano letto le direttive europee, la nuova legge o sapevano qualcosa di micron e recepimento di atti formali. Come scrive Alessandro Baricco in The Game: “La vostra voglia di incazzarvi è molto maggiore degli argomenti che avete per farlo”. Col senno di poi, quella protesta erano i nostri gilet gialli, era la previsione di un governo pentaleghista: quelli che parlano strano dicono che bisognava cogliere il sentiment.

 

E tracciamolo, questo sentiment. Si può fotografare un’identità dell’indignazione popolare italiana del 2018 partendo dal cibo, perché non siamo quello che mangiamo ma siamo quello che fotografiamo nel piatto. La pizza di Cracco: brutta e costosa in Galleria, come si permette; segue Salvini che mangia fritti misti con le tette al vento, i piatti di pasta conditi male e le fette biscottate con la Nutella; e non dimentichiamoci Stefano Accorsi che mangia una pizza di notte in piazza San Marco, nel cartone, e deturpa il contesto artistico. Solo i francesi potevano fare peggio. Così quando il Louvre ha usato la Gioconda (appropriazione culturale!) per promuovere il museo e la nazionale durante la vittoria dei Mondiali di calcio, gli italiani hanno dichiarato guerra.

 

 

Peggio del cibo e della rivalità coi francesi c’è solo la bassa natalità. Indignazione alla visione dello spot della Chicco giocato ironicamente su coppie eterosessuali che fanno sesso. Doveva sembrare fantascienza (chi ha voglia di far sesso?) e invece è passato come uno spot fascista che obbliga le donne ad avere figli (anche se al massimo poteva essere letto come un incitamento al sesso promiscuo senza profilattico). Innumerevoli i messaggi “fare figli se avessi più soldi”, prontamente accolti dal governo felpastellato che finge di crederci, e ha promesso terre industriali da bonificare a tutti i futuri contadinelli (come se in Africa dicessero “li farei se avessi più giochi della Chicco”). Il ruolo della donna in tempi di MeToo e al nuovo femminismo non concepisce l’esistenza di Elisa Isoardi, la quale lavava e stirava per il proprio uomo, rimanendo in disparte, prima di pubblicare la foto a letto con il Ministro degli Interni per chiudere una relazione. Abbiamo istituzionalizzato il Revenge porn senza neppure accorgercene.

 

 

 

 

Non reggiamo neppure l’esistenza di generi voluttuari: se non posso permetterlo non lo devi produrre, non devi mostrarmelo, non devi neanche nominarlo (sì, parlo dell’Acqua Evian brandizzata Ferragni a 8 euro, peggio della pizza di Cracco). Altro modo per fare incazzare tutti è lo spreco di cibo: le tragiche foglie di lattuga lanciate per terra alla festa di compleanno di Fedez sono l’orrore di tutte quelle mamme che “finiscilo, ci sono bambini che muoiono di fame” (e nessuno che ci abbia mai spiegato come ingozzarci avrebbe sfamato il terzo mondo). A Sonia Bruganelli basta farci le pernacchie sui voli privati per farci urlare allo scandalo, mentre in Inghilterra alla Regina Elisabetta per ottenere lo stesso effetto tocca posare di fronte a un pianoforte d’oro.

 

 

 

Ne esce un’Italia ossessionata dall’identità nazionale, dalla moralità, e dalla tradizione. Sempre pronti a giudicare per distinguerci, ci siamo chiesti se Chiara Ferragni fosse una cattiva madre quando ci mostrava il figlio Leone abbrustolito in Sardegna (una volta cresciuto le farà causa), o quando lo usava per la sponsorizzazione del latte artificiale (è stato peggio di abbandonarlo in un bidone dei rifiuti) o per averlo fotografarlo troppo e abbandonato preferendo lavorare anziché fissarlo mentre lui si leccava i piedi. Ci siamo chiesti cosa avesse Michelle Hunziker da ridere mentre tutti piangevano Fabrizio Frizzi, e lei s’è dovuta difendere e spiegarci che non c’è bisogno di listare a lutto il profilo per provare dei sentimenti. Abbiamo letto i no vax prendersela con il pallavolista Zaytsev perché ha vaccinato la figlia, ce la siamo presa con quella mamma genovese che ha organizzato un no vax party in pigiama.

 

 

 

Tutti gli argomenti si appiattiscono sotto a titoli mistificatori, tutto diventa rilevante anche quando non lo è: che sia una pubblicità Uliveto in cui una bottiglia copre due atlete di colore, che sia Nadia Toffa che dice ingenuamente che il cancro è un dono, che siano le amiche della Ferragni definite “Rotonde e felici” sul Corriere o l’albergatore di Ischia che regala un soggiorno a Matteo Salvini per farsi pubblicità. Perché abbiamo fretta di arrabbiarci, come ha detto Erykah Badu in un’intervista in cui dice che non dobbiamo avere fretta di giudicare, dobbiamo conoscere i fatti prima di posizionarci. Intervista che ha iniziato a girare come “Erykah Badu pensa che in Hitler ci sia qualcosa di buono”.

 

Abbiamo insultato quella tonta che scriveva che i bambini morti in mare erano dei bambolotti e anche quell’altra che urlava ai poliziotti che meritavano di morire. Poi, per fortuna, ce ne siamo dimenticati. Perché è proprio questo il punto: che fine fa tutta questa indignazione dopo che si è preso posto, dopo che si è cambiata foto al profilo, ci si è fotografati col simbolo, con la maglietta, dopo aver scritto lo status definitivo, il tweet al politico scellerato, dopo aver fatto una schermata tutti soddisfatti? Ce ne si dimentica e si passa al prossimo Barabba, al prossimo tagliatele la testa, alla richiesta di licenziamenti, di scuse, di pentimento (pubblico, o non esiste). Francesco Piccolo in un vecchio articolo sull’Unità ha scritto che “indignarsi vuol dire sentirsi estranei a ciò che accade davanti ai propri occhi; è una reazione civile, ma che respinge ogni coinvolgimento nella realtà”. Forse ci penseremo al prossimo piatto del troll sovranista, o forse non avremo il tempo di pensarci.