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L'Opa cinese sulle reti strategiche marcia solo qui

Eugenio Cau

Temuti da molti, accolti da Di Maio. Il ceo di Zte Italia si difende e promette trasparenza

Chi ha paura del 5G cinese? L’elenco dei governi che mostrano diffidenza o rifiuto nei confronti delle aziende provenienti dalla Cina che producono infrastrutture per le reti di quinta generazione cresce tutte le settimane. Pochi giorni fa Reuters ha pubblicato in esclusiva alcune interviste anonime a esponenti del ministero degli Esteri e dell’Interno della Germania, che starebbero preparando una grande iniziativa per “escludere aziende cinesi come Huawei dalla costruzione delle infrastrutture per il 5G sulla base di preoccupazioni che queste potrebbero compromettere la sicurezza nazionale”. Un funzionario dice a Reuters: “C’è notevole preoccupazione, se dipendesse da me, [noi tedeschi] faremmo come sta facendo l’Australia”. Lo scorso agosto, Canberra ha deciso in via definitiva di bandire le compagnie cinesi come Huawei e Zte da ogni gara per la costruzione di infrastrutture 5G. Gli Stati Uniti hanno adottato la medesima politica ormai anni fa. All’inizio di novembre, il Financial Times ha rivelato movimenti simili nel Regno Unito. In Italia, a partire dal 2012 il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis) ha sollevato più volte dubbi sulla sicurezza di affidare infrastrutture strategiche ad aziende cinesi, ma nessun governo ha mai agito in maniera risolutiva. Ieri, dopo cinque mesi di negoziati, la Commissione europea ha annunciato la creazione di un meccanismo di controllo coordinato sugli investimenti stranieri in Europa, specie quelli provenienti dalla Cina, con l’obiettivo di porre fine a quella che uno dei negoziatori ha definito “l’ingenuità europea”.

  

Chiamate in causa, le aziende cinesi fanno del loro meglio per difendersi. Sentito dal Foglio in un articolo pubblicato pochi giorni fa, il presidente di Huawei Italia, Luigi De Vecchis, ha derubricato le preoccupazioni sulla sicurezza della sua azienda a “piccole stupidaggini” e “leggende metropolitane”, dando ampie rassicurazioni sulla serietà di ogni procedura.

  

Pochi giorni dopo, il Foglio era all’Aquila, dove Zte, seconda azienda di telecomunicazioni della Cina, ha aperto all’inizio dell’anno un centro di sperimentazione per il 5G. L’azienda ha organizzato un evento importante per mostrare le potenzialità del 5G, e tra le altre cose ha mostrato come le reti di nuova generazione possano essere decisive per i soccorsi durante eventi catastrofici come i terremoti, questione come ovvio molto sentita nel capoluogo abruzzese.

   

Hu Kun, presidente di Zte per l’Europa occidentale, oltre che ceo di Zte Italia, ha parlato con il Foglio della questione della sicurezza, e la sua idea è che “la tecnologia è neutrale”. “Se vogliamo collegare la questione della tecnologia ad altri aspetti di carattere politico, noi [di Zte] non ci possiamo fare niente”, dice Hu Kun, qualificando così le preoccupazioni delle agenzie di intelligence europee come una questione di politica e di influenza, non di sicurezza e fiducia. “Zte è perfettamente allineata a tutti gli standard internazionali più elevati in materia, come il 3GPP, e su questo siamo tra le prime quattro aziende al mondo. Inoltre, in un futuro prossimo il centro dell’Aquila diventerà un polo aperto di trasparenza in cui chiunque potrà controllare il nostro lavoro, dalle istituzioni ai cittadini. I nostri competitor seguono approcci simili, e dunque non vedo ragioni particolari per cui bisognerebbe preoccuparsi delle aziende cinesi”.

   

Zte ha una ragione in più per essere accorta. Lo scorso aprile il dipartimento del Commercio americano ritenne che l’azienda fosse in violazione di accordi previ sulla vendita di tecnologia a paesi sotto sanzione, e vietò a tutti i fornitori americani di fare affari con Zte. Il divieto fu a tal punto devastante che per più di due mesi Zte ha dovuto interrompere la sua produzione, fino a che tra luglio e agosto l’Amministrazione Trump è tornata sui suoi passi, dopo il pagamento di un’enorme multa e promesse di trasparenza. “Dopo la rinascita dell’azienda [a seguito del sollevamento del bando, ndr] abbiamo osservato alla lettera tutti i protocolli di conformità, e oggi siamo una delle compagnie più trasparenti del mondo, e questo vale per tutte le industrie”, dice al Foglio Hu Kun. “Abbiamo stabilito un sistema di conformità interno, e la trasparenza è la nostra prima priorità, superiore perfino al business. Se dopo tutto questo c’è ancora preoccupazione senza prove, cosa possiamo dire? Facciamo il nostro meglio per i clienti e per i partner che credono nella nostra tecnologia. Il resto è soltanto rumore”.

   

Il fatto che alti dirigenti di alcune delle più importanti aziende di telecomunicazioni del mondo debbano giustificarsi a questo modo è inusuale, ma è la testimonianza del grande dilemma che si para davanti alle multinazionali cinesi interessate a fare affari all’estero. Huawei e Zte devono convincere clienti, partner e governi non soltanto della propria affidabilità, ma anche dell’affidabilità del paese da cui provengono, e questo è uno svantaggio competitivo.

   

A preoccupare le agenzie governative occidentali non è soltanto il fatto che la Cina è un paese noto per piegare le regole del mercato alle proprie esigenze; è un passaggio esplicito della legge nazionale sull’Intelligence approvata da Pechino l’anno scorso, che dice che “organizzazioni e cittadini [cinesi, ndr] devono, conformemente alla legge, sostenere, cooperare e collaborare con il lavoro dell’intelligence nazionale”. Zte e Huawei sono due aziende indipendenti, ma chi può escludere la possibilità che un giorno Pechino pretenda una prova di lealtà? Lucio Fedele, coo di Zte, ricorda che finora “i problemi di data privacy hanno riguardato non le infrastrutture, ma la gestione dei dati”, e che dunque il problema di compromissione della rete è probabilmente remoto: pericoloso è chi maneggia i dati, non chi fa gli impianti. Tuttavia il dilemma resta. Per rassicurare davvero i mercati occidentali, le multinazionali cinesi dovrebbero prendere le distanze da Pechino. Ma è ovviamente un pericolo che nessuno può correre: da gennaio il gigante tech Tencent ha perso quasi 250 miliardi di dollari di capitalizzazione dopo avere irritato il governo.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.