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Così vince l'American Carnage di Trump

Giuliano Ferrara

Se i democratici prendessero la Camera, Trump avrebbe un totem contro cui scagliarsi. In caso contrario, strada spianata al 2020. Non parla di economia, che pure va bene. La sua forza sono le viscere di un’America che conosce bene

Se i democratici americani oggi prendessero la Camera, l’Impostore in chief avrebbe un nuovo totem intorno al quale inscenare la sublime danza della demagogia per essere rieletto tra due anni. Se questo non avvenisse, a parte le rilevanti conseguenze per gli apparati di potere e la credibilità dell’opposizione, cose da non sottovalutare, l’Impostore mancherebbe di un totem ma avrebbe con sé perinde ac cadaver tutti i repubblicani senza eccezione nella corsa alla rielezione. Non c’è soluzione. La demagogia inventa la realtà, produce argomenti falsi come prodotti freschi da smerciare ogni giorno, induce a plebisciti da paura, ha per sé il futuro in mezzo mondo ed è anche perfettamente compatibile, per adesso almeno, e in America, con risultati brillanti in politica economica e in politica estera, due temi che Trump in campagna trascura, pur essendo in teoria due carte vincenti di prim’ordine, in favore della carovana di migranti che “minaccia” la frontiera, con un rilancio del gioco sporco sull’immigrazione illegale dalla quale solo un uomo forte può difendere il popolo smarrito.

 

Il fatto è che le verità indiscutibili di un ciclo economico positivo, cominciato prima di Trump ma da lui incentivato e incrementato con sapienza istintiva di con-artist e maestro del deal commerciale, truffatore e facitore di accordi, e competenza marcata Wall Street, così come la rottura in politica estera con le sue conseguenze felici America First, sono materia argomentativa per elettori maturi, oggi è così, domani chissà, e comunque impongono un discorso costruttivo, un impegno al dialogo democratico e responsabile, istituzionale, per il quale il proto-Bolsonaro di Washington non è atleticamente preparato. Il suo ramo accademico è bugie e paura, la strizzata d’occhio ai valori familisti e paraevangelici trascurati dai liberal, categoria di cui ha sempre tumultuosamente e grottescamente fatto parte, fino alla discesa opportunistica dalla scala mobile della Trump Tower e alla reinvenzione di sé come candidato repubblicano ad alta energia e dai modi più che grossolani, e un effetto di dominio e soggezione che costringe le élite dei media e del Congresso a una battaglia difensiva fino a oggi senza molte speranze, e i conservatori della vecchia scuola a una specie di clandestinità politica. Anche Berlusconi, che lo aveva preceduto di ventidue anni con i modi del “mi consenta”, era il re della vanagloria, ma non ha mai avuto né l’inclinazione né la forza di stravolgere con la demagogia armata, che era tutta dalla parte dei suoi oppositori, inconsapevoli del fatto che preparavano l’esito finale truce e imbelle che conosciamo, il suo personalismo teatrale e politico.

 

Trump, come osserva con acume Bret Stephens, sceglierà sempre una battaglia di retroguardia, anche rispetto ai fatti buoni di cui farsi forza, in favore della brutalità falsaria della più spietata retorica dell’American Carnage: conosce il campo di gioco in cui è sempre il più forte, lui che viene dalla tv e dal reality, lui che è un illustre twitterato, letterato del Twitter, lui che ha in testa, e nello stomaco, insieme con il doppio hamburger quotidiano, le viscere di una parte oggi preponderante dell’elettorato americano. Può osare tutto, in questo campo, anche cercare di sputtanare gli dèi dello stadio per vilipendio dell’Inno nazionale (si inginocchiano durante l’esecuzione). Può compiangere i giovani maschi bianchi americani dopo il processo al giudice Kavanaugh. Può prendersi i fischi degli ebrei di Pittsburgh e gli appalusi di Netanyahu e i quattrini di Sheldon Adelson contemporaneamente. Può disprezzare donne, neri, latinos e altre maggioranze e minoranze e prendersi i loro voti per la sicurezza. In questi numeri è invincibile. Se la posta in gioco è il bilanciamento dei poteri, bisogna augurarsi la presa della Camera per i democratici, che sarà comunque un palliativo, se non un revulsivo, agli effetti della battaglia del 2020 per la rielezione o l’alternativa.

 

Un programma persuasivo per una maggioranza che ragioni e un/a candidato/a forte e affascinante che sappia insieme promettere protezione senza costrizione, senza bugie, senza guerre ai nemici del popolo, senza sottrarsi ai controlli e ai bilanciamenti usando le truppe federali per la campagna elettorale, senza corrosione della Costituzione e devastazione della cultura popolare civica, e sviluppo e benessere senza retoriche nazionaliste e protezioniste. Cioè l’America di prima, Once Upon a Time in America, come un film di Sergio Leone. O un/a repubblicano/a con le palle, di cui non si intravede nemmeno la silhouette. La quadratura del cerchio. E il cerchio è tondo, c’è poco da fare, quadrarlo non è mai stata impresa facile. Quando un mago da circo equestre si impadronisce del cerchio, la ruota minaccia di girare indisturbata per periodi di tempo molto estesi.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.