Anche i giornali mainstream si accorgono che il tempo della neutralità è finito
L’èra Trump, quella gialloverde e il problema serio della verità
Forse la vicenda delle fake news sta finalmente producendo qualche ripensamento profondo anche negli attori del giornalismo e della comunicazione. Su Vox appare il dialogo tra Ezra Klein, giornalista, e Jay Rosen, professore di Storia del giornalismo alla New York University, che riflettono sulla situazione del giornalismo politico negli Stati Uniti. Lascerei perdere la solita unilateralità sulla situazione politica americana, dove dell’attuale presidenza i due vedono solo gli innegabili aspetti volubili e disorganici, pericolosi per le istituzioni, e non notano gli altrettanto innegabili successi almeno in campo economico. La discussione tra i due tocca poi molti dei temi che sono alla base di una seria autocritica della comunicazione: l’autoreferenzialità per cui i giornalisti scrivono per gli altri giornalisti e non per il pubblico; la mania della notiziabilità come misto di nuovo, scandaloso, conflittuale, segreto e interessante che fa parlare spesso di cose prive di valore; la dura legge della competizione che spinge alla fretta di pubblicare senza verificare; la paura di essere smentiti che spinge alla retorica del “far sentire tutte le campane”; il problema di scelte dettate dal voler intrattenere il proprio club di lettori invece che di informarlo davvero. Sono tutti temi importanti per una storia del giornalismo, ma nel dialogo i due esperti arrivano anche a due considerazioni filosofiche che mi sembrano cruciali.
La prima constatazione è che con l’èra Trump e la sua feroce battaglia contro i media mainstream finisce l’era della neutralità, della celebre “view from nowhere”. In effetti, il costante attacco del presidente degli Stati Uniti alla stampa e ai giornalisti si basa su un radicale scetticismo sulla veridicità delle notizie e sull’operazione di scegliere e amplificare di notizie di valore opposto. Come dicono Klein e Rosen, Trump è diventato la fonte di informazioni e il giornalista di se stesso, con le stesse tecniche degli altri giornalisti. Così, inconsapevolmente, il presidente degli Stati Uniti ha messo in luce che scelta e conseguente amplificazione di una notizia non possono essere neutre. Certo, lo si insegna al primo anno di Comunicazione, ma forse – argomentano Klein e Rosen – è ora di cominciare a fare un giornalismo diverso, che dichiari non le proprie appartenenze astratte, ma le proprie priorità e i propri criteri di scelta. Di fatto, è un’operazione che il Foglio ha fatto dalla sua nascita, ma che è – proprio per questo – un’eccezione.
Il secondo tema filosofico della conversazione di Vox è l’ammissione che nella battaglia stampa vs Trump, i giornalisti sono stati messi in un angolo nel quale sono stati costretti a difendere un “concetto troppo stretto di verità”. I due non argomentano oltre, ma la questione è seria. La cultura mainstream della comunicazione è passata dal gioire per la completa dissoluzione di ogni verità, giudicata sempre violenta e integralista, al patetico fact-checking di una corrispondenza esclusivamente letterale tra parole e cose. Dalla padella del nichilismo alla brace del positivismo. E’ un percorso culturale che non riguarda solo il giornalismo ma l’intero mondo culturale e acculturato. Passare dal mettere in dubbio anche le evidenze più ovvie – come l’esistenza di due sessi – a controllare che ogni espressione di un post sia letteralmente corrispondente a un fatto, oltre che essere impossibile, non è un avanzamento. Quando uno dice che un ministro è un “incompetente” è un fatto, un’opinione, un insulto o una calunnia? Alle volte, la verità richiede un tempo di verifica che non si può semplicemente mettere dentro lo schema di un sì/no immediato. E’ vero che la manovra neokeynesiana del governo sarà un successo e farà ripartire l’economia? Possiamo avere molte opinioni in proposito, ma la verità emergerà con il tempo. Molto di più ce ne vorrà, per esempio, per capire se i cambiamenti climatici in atto e i nostri comportamenti al riguardo sono effettivamente fatali. In entrambi i casi, speriamo che la verità emerga quando siamo ancora in tempo per agire. Ancora, è facile smentire un video a cui è stata sovrapposta una traduzione sbagliata, ma non è facile smentire che l’aumento delle spese militari porta alla pace o, viceversa, che porta alla guerra.
L’intervista dei due esperti di Vox, insomma, tra fine della neutralità e riconoscimento di un problema ampio e serio della verità, ricorda che la storia non va avanti da se stessa, frutto di cambiamenti sociologici inevitabili, ma che richiede anche la lotta di ciascuno, il prendere partito, il dichiarare preoccupazioni e ragionamenti, il rischiare dei giudizi e avere la forza e il coraggio di sostenere e accettare smentite e correzioni. L’ammissione degli errori passati, della finta neutralità e del finto nichilismo, come sempre, è il primo passo verso un rinsavimento della comunicazione che sarebbe necessario in questo momento. L’alternativa è rassegnarsi a condannare comunicazione ed expertise all’insignificanza in una giungla di rumori.
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