Una conferenza stampa di Luigi Di Maio (foto LaPresse)

“Non mi preoccupano gli insulti ai giornalisti, ma le leggi manganello”. Parla de Bortoli

Salvatore Merlo

L'ex direttore di Corriere della sera e Sole 24 Ore: “Non servono manifestazioni in piazza, né flash mob. Dovremmo cercare di fare meglio e fino in fondo il nostro mestiere: più domande e meno microfoni aperti”

Roma. “Non servono manifestazioni di giornalisti in piazza, né flash mob”, dice Ferruccio de Bortoli. Pennivendoli e puttane? “Dovremmo cercare di fare meglio e fino in fondo il nostro mestiere. Troppo spesso nelle interviste televisive accade di vedere il microfono lasciato nelle mani del politico. Come pure bisogna smetterla con le interviste fatte via mail sui quotidiani. Sono pessime”.

 

E il problema, forse, è proprio questo. I grillini, non da oggi, vanno in televisione dettando loro le regole d’ingaggio: scelgono i giornalisti ammessi al loro cospetto, intervengono sulla scaletta, pretendono di parlare da fuori, in collegamento, così da essere più difficilmente interrotti. E quei conduttori che non accettano di piegarsi a queste richieste finiscono per non avere gli ospiti. Vogliono soltanto essere pettinati per il verso giusto. E quando non accade, allora insultano. “Questo è sempre successo, anche se mai con questi toni così sguaiati. I tempi richiedono più distanza. Bisognerebbe smettere di avere rapporti amicali con le fonti e guardare nelle pieghe della gestione del potere, cosa che il M5s evidentemente non sopporta. L’intolleranza nei confronti delle domande è tipica di chi sta al potere. Ma le domande non rivelano un pregiudizio, sono un dovere. La base della professione. E vanno fatte”.

 

Talvolta, leggendo un’intervista, sui quotidiani, ci si stupisce perché dopo una risposta incerta o sballata, manca la controdomanda. E allora s’intuisce che quell’intervista ha qualcosa che non va. Ci sono uomini di governo, come il ministro Riccardo Fraccaro, che non si fanno mai intervistare, se non così: via mail. Come pure Davide Casaleggio. O Berlusconi. Viene persino il dubbio, alla fine, che non siano nemmeno loro a rispondere. Ma un addetto stampa. “Le interviste si fanno parlando. Altrimenti non sono interviste”, dice De Bortoli. “Devi poter contrastare quello che ti viene detto. A me per esempio è piaciuta quell’ormai famosa intervista di Channel Four a Jeremy Corbyn. Lui non risponde, la prende larga, e allora il giornalista gli ripete sempre la stessa domanda. Mi è piaciuto anche Jim Acosta: davanti a Trump che lo insultava non ha mollato un attimo. Il giornalista deve essere corretto, ma diretto”. E invece? “C’è un’idiosincrasia nei confronti delle domande da parte del nuovo regime, che però non va assecondata”.

 

E alla fine Ferruccio de Bortoli non si stupisce per i termini usati da Alessandro Di Battista nei confronti della stampa. Puttane e pennivendoli. “Espressioni così volgari non le ricordo in passato, ma essendo questi nuovi politici più maleducati e più ignoranti dei loro predecessori non mi stupisco. Il fastidio e a volte persino l’odio nei confronti dei giornalisti si è manifestato in tanti momenti. Ricordo l’editto bulgaro o le ‘iene dattilografe’ di Massimo D’Alema. Ma gli insulti qualificano solo chi li pronuncia. Trovo invece più grave l’uso minaccioso dello strumento legislativo da parte del governo”.

 

E qui De Bortoli si riferisce alle parole di Luigi Di Maio, che promette una legge non meglio precisata sugli editori puri. E un intervento sui finanziamenti pubblici. “Questi gettano sul tavolo una legge come fosse un manganello. E’ come dicessero: ‘Ti colpirò in altro modo’. Ecco, qui io ci vedo qualcosa di preoccupante. Un riflesso autoritario. Una violenza implicita. La politica ha il diritto di regolare i settori, ma se si arriva al punto di usare strumenti di legge a scopo ritorsivo allora siamo all’anticamera dell’autoritarismo. Mi capita di pensare che il successo politico abbia dato alla testa ai cinque stelle. Devo dire che mi hanno stupito le reazioni di Virginia Raggi e Chiara Appendino nei confronti delle proteste civiche nelle loro città. Specialmente la reazione di Raggi, che era molto sprezzante. Le due sindache avrebbero dovuto riconoscere la loro storia, in quella gente che scendeva in piazza. E invece, evidentemente, i Cinque stelle si sono dimenticati molto presto di essere stati all’opposizione”.

 

E come se ne esce? “Facendo bene i giornalisti, ripeto. Sapendo che bisogna continuare a raccontare un’amministrazione inconcludente come quella della Raggi”. Malgrado le minacce. “Se perdono la pazienza vuol dire che stiamo facendo bene il nostro mestiere. Gli unici posti in cui i politici non si lamentano sono quelli dove la stampa non è libera. Erdogan infatti non si lamenta più”.

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