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L'autunno di Macron

Stefano Cingolani

Cala la popolarità, l’economia rallenta, il governo si sfalda. Il presidente però non molla: rilancia le riforme e serra le fila dell’esecutivo. E può contare sui giganti nazionali di industria e servizi

E’ riapparso in televisione martedì sera alle 20 in punto dopo 15 giorni di polemiche e manovre. Pallido, lo sguardo fisso nella telecamera, l’aria un po’ allucinata, secondo i partiti d’opposizione che lo hanno trovato “crepuscolare”, giudicando “falsa e sfuggente” la sua allocuzione nel tentativo di spiegare la crisi di governo e il rimpasto. Le dimissioni di Gérard Collomb, il pigmalione, il vecchio socialista lionese stratega del macronismo, hanno scosso il presidente. “En marche ha perso la sua testa”, ha scritto Le Monde, e Macron lo sa bene. Collomb era una figura chiave, se ne è andato per i contrasti nel governo, in particolare con il primo ministro Edouard Philippe ansioso di diventare lui l’ago della bilancia pur giurando di non voler mai uscire dal cono d’ombra dell’Eliseo. Ma ha lasciato con una coda polemica che coinvolge direttamente Macron: il padrino parla di “umiltà”, pone una questione di carattere, mette in discussione il lato umano del suo figlioccio. Un colpo duro, che fa male all’orgoglio di Monsieur le Président il quale ha risposto con un rimpastone di governo all’insegna del più puro macronismo. “Tignoso”: è stato lo stesso Emmanuel a definirsi così, parlava di quando da giovane giocava a calcio, ma dava di sé la definizione forse più sincera. Dunque, il presidente non molla. La congiuntura economica peggiora, dopo il mini-boom dello scorso anno? Diamole una spinta. Le riforme suscitano polveroni sociali? Rilanciamole. Il governo si sfalda? Serriamo le fila.

 

Con il suo discorso di dieci minuti in tv, dagli accenti gravi, ha promesso: non ci sarà alcuna svolta, nessun cambiamento di rotta

La riforma delle pensioni ancora non prende corpo. L’industria segna il passo, ma la Francia sta facendo grandi sforzi per rilanciarsi

Il sostituto agli Interni, Christophe Castaner, è un fedelissimo, 52 anni, già capo de La République en Marche, anche lui ex socialista; Castà come lo chiamano gli amici, è personalità di forte impatto anche comunicativo e con Macron c’è un rapporto di assoluta fiducia reciproca. Dopo l’estate del tracollo nei sondaggi e sette ministri dimessi, la nuova compagine di governo si presenta più fedele e stabile, solida e intenzionata a comunicare meglio. Con il suo discorso di dieci minuti in tv, dagli accenti gravi, il presidente ha promesso: “Non ci sarà alcuna svolta, nessun cambiamento di rotta”. In realtà, non è proprio così. Quella degli Interni è una poltrona chiave anche perché, come sottolinea Le Monde, Macron non ha mai voluto ammettere quanto siano centrali la sicurezza e l’immigrazione, due facce della stessa medaglia nella percezione degli elettori. Sugli Interni, ripete l’Eliseo, “non si può più sbagliare”. Il presidente ha affiancato a Castaner uno specialista: Laurent Nuñez, “il poliziotto di Macron”, da un anno nominato capo dei servizi segreti francesi e adesso proiettato al governo con la precisa missione di ricucire lo strappo con polizia e gendarmi dopo lo scandalo Benalla, il consigliere dell’Eliseo che affiancava, manganello alla mano, gli agenti durante le manifestazioni.

 

Tra popolarità in discesa e conflitti sindacali, Macron deve fare i conti con le resistenze al cambiamento di un paese intimamente conservatore finché non esplode in improvvise jacqueries, rivolte e, dio non voglia, colpi di stato o rivoluzioni. Un paese forte, solido, ricco, stabile, ma anche un Vesuvio pronto a esplodere. Nemmeno l’economia rallegra l’Eliseo perché la crescita che l’anno scorso era alla tedesca con un pil aumentato del 2,4 per cento, s’è fatta improvvisamente all’italiana con un modesto 1,6 per cento insufficiente a ridurre la disoccupazione che resta all’8,9 per cento. Secondo l’Insee (l’Istituto di statistica e studi economici), può trattarsi di un “vuoto d’aria” e il secondo semestre dell’anno registrerà un ritmo più elevato anche grazie a un rilancio del potere d’acquisto delle famiglie, un rimbalzo i cui effetti si vedranno soprattutto nei mesi futuri. Il governo stima 1,7 per cento nel 2018, un obiettivo confermato anche nel 2019, che certo non offre grandi spazi alla creazione di posti di lavoro: il ministero delle Finanze prevede 170 mila occupati in più esattamente la metà rispetto a quest’anno. Il taglio delle tasse per le imprese dovrebbe dare una spinta alla congiuntura che ripiega le ali, bilanciando così, almeno questo è il calcolo del governo, il rallentamento dell’economia mondiale. La Francia, insomma, punta a sostenere la domanda interna per compensare quella estera, proprio come l’Italia, ma non allargando la spesa assistenziale, bensì intervenendo sulle imposte e i contributi sociali così da ridurre, anche se di poco, una pressione fiscale tra le più alte d’Europa. “Facciamo come Macron”, lo dicono i macronisti e lo dicono gli anti-macronisti. Macron, però, ha una ricetta diversa sia da quella nazional-populista sia da quella della sinistra italiana che si blocca sempre davanti al tabù delle tasse e dello stato sociale.

 

La misura fiscale più pesante dell’intero bilancio per il 2019 è la trasformazione del credito d’imposta per la competitività dell’impiego (detto Cici) in riduzione dei contributi sociali, il che costa allo stato 20 miliardi di euro. Ciò spiega perché il deficit pubblico scende al 2,8 per cento, meno di ciò che si era sperato. Si tratta di una misura una tantum, per questo il governo parla di un deficit “vero” pari all’1,9 per cento. Le imprese saranno avvantaggiate anche da una riduzione della tassazione sulle società (2,4 miliardi). Per le famiglie ci sarà l’anno prossimo un guadagno di 6 miliardi, stima il ministero delle Finanze, grazie a interventi sui contributi sociali e soprattutto la soppressione della tassa sulle abitazioni (3,8 miliardi di euro). In compenso, aumenteranno le solite gabelle sul tabacco e sui carburanti (2 miliardi). Le categorie più agiate possono contare sull’aliquota unica del 30 per cento sui redditi da impieghi finanziari che dovrebbe fruttare 5 miliardi l’anno prossimo. Nell’insieme la spesa pubblica cresce un po’ più dell’inflazione, ma dovrebbe ridursi rispetto al prodotto lordo.

 

“Una iniezione di liquidità per le aziende e gli individui”, dice il ministero delle Finanze. Una politica per le imprese non per il popolo, accusano a destra come a sinistra, sia Marine Le Pen sia Jean-Luc Mélenchon, imbufalito dopo le perquisizioni della polizia nella sede del suo movimento per aver imbrogliato con i fondi pubblici europei, un’accusa che ha già colpito anche il Rassemblement (ex Front) national e suscita sospetti sull’uso politico dell’apparato repressivo-giudiziario al quale la Francia non è certo nuova. Per Valéry Rabault, capo gruppo dei socialisti all’Assemblea nazionale, “Macron farà abortire la ripresa” e ce l’ha in modo particolare con la fiscalizzazione degli oneri sociali. Ma piovono critiche anche da economisti di simpatie certo non estremiste. Per Jean-Marc Daniel, che si definisce “un liberale classico”, il bilancio 2019 è il momento della verità. “Dopo sarà troppo tardi – spiega – per ragioni economiche e politiche, nessuna riforma potrà più essere fatta. Il ciclo economico, che ha giocato a favore di François Hollande, adesso gioca contro Macron. L’anno prossimo il ciclo s’invertirà e ci vorranno tre anni prima che l’economia riparta di nuovo”. Il debito pubblico di per sé non è un problema: è cresciuto di 30 punti dall’inizio della crisi (come in Italia), ma resta al 97 per cento del pil. Il problema è mettere fieno in cascina.

 

Si sbilancia persino il premio Nobel 2014 Jean Tirole, che pure è sempre restio ad apparire sui media: “L’applicazione delle riforme va troppo a rilento”, spiega al Journal du Dimanche. “Quel che irrita molte categorie sociali è l’arrivo della concorrenza, prevista da una direttiva europea del 1991. Ma non c’è alternativa, bisogna passare di là, nelle ferrovie come ovunque. Abbiamo bisogno di più Europa – aggiunge – la Francia o l’Italia sono troppo piccole di fronte a Google o alla Cina”. La Francia e l’Italia: il professor Tirole non le ha messe a caso l’una accanto all’altra, pur con le loro profonde differenze entrambe sono percorse da quella corrente nazional-populista che attraversa tutto l’occidente. In Italia quelle forze hanno vinto, in Francia sono state fermate da Macron, ma ora il rischio è che il leader politico, il personaggio innovatore, non lasci nessuna scia consistente dietro di lui e c’è già chi dice dopo di lui il diluvio, “aprés lui le déluge”.

 

Dopo il codice del lavoro, dopo le ferrovie, dopo il taglio di quello che in Italia si chiama il cuneo fiscale, adesso tocca alle pensioni, ma questa riforma, più volte annunciata, ancora non prende corpo. Del resto è una patata bollente, chi la tocca si brucia le dita. Il punto di partenza è semplice quanto urticante: i pensionati hanno in media più soldi dei francesi che lavorano, una situazione che non ha eguali tra i paesi più industrializzati, nemmeno in Italia, che pure è seconda in classifica, dove i redditi medi di pensionati e lavoratori si equivalgono. Le similitudini sono parecchie e in entrambi i paesi gli ultrasessantenni, proporzionalmente, percepiscono più che in Germania, in Gran Bretagna, in Giappone o negli Stati Uniti. Con un limite legale di 62 anni, di fatto in Francia si va in pensione mediamente a 60 anni e si vive altri 23,6 anni per gli uomini e 27,6 per le donne. Il sistema transalpino è ancora fortemente legato al passato, con il predominio delle mutue e casse professionali: ce ne sono ben 42, con regole spesso molto diverse. Macron vuole dire addio ai regimi speciali, unificandoli il più possibile, ma non intende modificare l’età pensionabile né è in grado di passare a un sistema integralmente contributivo (anche se lo preferirebbe di gran lunga). L’idea è introdurre un meccanismo a punti per calcolare la pensione futura. Apriti cielo: i sindacati innalzano la bandiera della solidarietà e il segretario di Force Ouvrier (l’organizzazione un tempo anarco-sindacalista e poi legata ai trotzkisti) ha già parlato di “individualismo dei diritti”. Anche le due altre confederazioni, la Cfdt e la Cgt sono in fibrillazione. C’è poi la rivolta delle amministrazioni locali che si sentono emarginate e accusano Macron, asserragliato a Parigi nel suo Eliseo, di aver perso il contatto con la Francia vera. Già sentita no? Dagli Stati Uniti all’Italia è sempre la stessa storia.

 

Tra gradimento in discesa e conflitti sindacali, Macron deve fare i conti con le resistenze di un paese intimamente conservatore

La misura fiscale più pesante è la trasformazione del credito d’imposta per la competitività dell’impiego in riduzione dei contributi sociali

Ma la politica economica, per quanto importante nello spingere o frenare la congiuntura, non è tutto, perché la ricchezza delle nazioni non la fanno i governi, nonostante quel che sostengono i crociati vecchi e nuovi della politica al primo posto e del capitalismo di stato. Come va allora la produzione di merci a mezzo di merci, come vanno le banche che incanalano la linfa dell’economia e come va la Borsa che ne rappresenta il sistema nervoso, quello che con i suoi impulsi può provocare euforia o depressione? E i campioni nazionali che sono stati negli ultimi cinquant’anni la force de frappe économique della Francia? Uno studio del Tesoro lamenta che l’industria francese non sia riuscita, nemmeno lei, a tenere il passo con quella tedesca. Dal 2000 al 2016 la produzione industriale si è ridotta del 3 per cento mentre in Germania è aumentata del 25 per cento, sono stati penalizzati i settori a medio-alta tecnologia, esattamente quelli che sono cresciuti di più oltre Reno. Un colpo durissimo ha avuto l’automobile: meno 28 per cento in Francia, più 57 per cento in Germania.

 

Colpa dell’euro? Colpa della Cina? Colpa della produttività del lavoro? Colpa di un sindacalismo conflittuale mentre i tedeschi rafforzavano anche durante la crisi le loro relazioni industriali basate sulla cogestione e la collaborazione a livello di impresa? Le responsabilità probabilmente vanno equamente distribuite, perché i francesi non hanno perso colpi solo rispetto ai tedeschi. La polemica politica e la pubblicistica corrente si soffermano sempre sullo “shopping francese in Italia” e non c’è dubbio che in questi ultimi dieci anni sia stato consistente e abbia investito marchi popolari o veri e propri punti di forza del Made in Italy. Tuttavia, nella piccola e media impresa la Francia va meno bene dell’Italia che si è ristrutturata presidiando delle nicchie d’eccellenza, e ciò influenza anche le esportazioni: in termini di valore aggiunto, quelle italiane hanno dato risultati migliori. Alcuni leader assoluti del modello transalpino stanno perdendo colpi, per esempio nel settore del lusso e ciò riguarda anche il primatista mondiale, il gruppo Lvmh di Bernard Arnault. Mentre l’ambizione di sfidare gli americani nelle telecomunicazioni e nell’intrattenimento ha subito battute d’arresto, anche per colpa dell’Italia: si pensi a Vivendi che voleva creare la Netflix europea integrandosi con Mediaset; il progetto è saltato e Silvio Berlusconi si è orientato verso Sky, la quale però, dopo l’addio di Rupert Murdoch e la vendita a Comcast, non si capisce come andrà a finire.

 

Ciò non toglie che Parigi, preso atto delle sconfitte subite nelle guerre di mercato con le altre potenze economiche, stia facendo grandi sforzi per rilanciarsi, anche nell’automobile. La Renault, l’azienda nazionalizzata dopo la Seconda guerra mondiale, è diventata, integrando Nissan e Mitsubishi, la numero uno al mondo con 10,6 milioni di auto e veicolo leggeri venduti. La Peugeot che sembrava destinata a finire mangiata da un pesce più grande, ha immesso capitali cinesi e dello stato francese, ha comprato la Opel e quest’anno batterà la Volkswagen sul mercato europeo. Non basta a colmare il gap con la Germania, tuttavia mostra la capacità di rimonta dei due campioni nazionali. Lo stesso vale per i giganti delle costruzioni come Vinci e Bouygues o per i colossi dell’acqua, del gas, dell’elettricità, del nucleare, per la grande distribuzione (Carrefour è numero dieci al mondo, le Coop, prime in Italia sono alla casella 72), vale per il turismo con le catene alberghiere, i trasporti ferroviari e aeronautici. Altro che il biglietto unico del quale parla Luigi Di Maio, oltr’Alpe l’integrazione è sistemica. L’Air France-Klm alle prese con un personale riottoso e iper-rivendicativo, è pur sempre uno dei tre colossi europei con Lufthansa e British Airways e uno dei maggiori al mondo. Se si guarda ai fatturati di tutte queste imprese nei settori più disparati, dalla manifattura ai servizi, e li si paragona con quelli delle concorrenti italiane, si capisce che la Francia resta il regno di Gargantua e l’Italia il paese dei lillipuziani. Forse piccolo è bello, forse l’Italia è il paese più bello del mondo, forse mangiare italiano fa meglio alla salute, forse i francesi sono italiani di cattivo umore. Ma tutta questa “grande bellezza” non fa che rilanciare maccheroni, mandolini e tutti i più vieti luoghi comuni. Con una differenza: una volta servivano per inventare barzellette al varietà, oggi diventano programma di governo. A giudicare da quel che succede in questi giorni, il teatrino della Barafonda s’è spostato nel cortile di Palazzo Chigi.

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