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Non è che in Giappone c'è un inquinamento turistico?

Giulia Pompili

Tokyo vuole arrivare a 40 milioni di visitatori l’anno entro il 2020. Il segmento più facile da attrarre è quello cinese

Tokyo. Ad Akihabara, quartiere tra i più commerciali e caratteristici della capitale giapponese, il cassiere di un negozio di articoli elettronici accoglie il consumatore europeo parlando in cinese. “Sumimasen, sumimasen”, scusi, scusi, dice dopo aver alzato lo sguardo, si scusa con insistenza, com’è tipico dei giapponesi, ma forse anche per evitare un’eventuale reazione a quella che potrebbe essere considerata una discriminazione, se non un’offesa.

 

Siamo nel mezzo della Golden Week (che si è appena chiusa), una settimana di festività introdotta alla fine degli anni Novanta dal governo di Pechino per incentivare il turismo interno alla Cina e i “ricongiugimenti familiari”. “Non ci sono che cinesi in giro”, dice al Foglio un ragazzo in uno delle decine di negozi di souvenir e chincaglierie d’ogni genere, ultramoderne e kawaii. Quest’anno, secondo le stima dell’agenzia di viaggi cinese Ctrip, almeno sette milioni di cinesi si sono messi in moto per andare all’estero nella settimana d’oro, e per la prima volta la destinazione più frequentata non è la solita Thailandia (l’ambasciata cinese a Bangkok ha pubblicato un avviso per i connazionali nel paese, per via delle condizioni meteo avverse ma anche a seguito del disastro navale che a Phuket ha ucciso 47 cinesi) bensì l’antico nemico: il Giappone.

 

Non è un caso visto che il soft power, secondo la strategia di Pechino, passa anche attraverso il turismo. Per menzionare un notevole precedente, basti pensare che l’economia della paradisiaca isola sudcoreana di Jeju, che di fatto viveva grazie all’indotto del turismo cinese, è collassata dopo il boicottaggio cinese legato all’istallazione dello scudo antimissile Thaad, un paio di anni fa. Poi le relazioni tra Cina e Corea del sud sono migliorate, ma la potenza del turismo dello yuan in Asia orientale è più forte che mai.

 

Akihabara, e tutta l’area intorno alla stazione omonima, sin dagli anni Trenta è considerato il quartiere dell’elettronica: è qui che si venivano a comprare le macchine cuociriso moderne e i primi elettrodomestici. Con il boom economico degli anni Ottanta il business si perfezionò ancora, e Akihabara divenne il luogo simbolo del consumismo elettronico e degli otaku, una cultura underground – ormai sempre meno underground – di “ossessionati” dai fumetti giapponesi e dai prodotti nipponici.

 

Da anni ormai la cittadella è sede di decine di caffè a tema manga ai quali corrispondono altrettante ragazze in costume che offrono sconti per strada e acchiappano clienti: accanto ai famosi e tradizionali maid cafè, ci sono quelli dedicati ai gatti, ai gufi, ai ninja, ad altri personaggi celebri dei manga, che coccolano quello che nello slang giapponese si chiama moe, un concetto assai complesso che può essere tradotto con il provare “un’attrazione pseudo-romantica” per un personaggio inventato o una sua caratteristica.

 

Sulla via principale di Akihabara, accanto alle ragazze che offrono esperienze da veri otaku, la maggior parte dei cinesi passa dritta: la destinazione finale sono i negozi di elettronica. Bic Camera, la catena di negozi tecnologici più importante del Giappone, lo scorso anno ha aperto un enorme store proprio ad Akihabara con un obiettivo ben preciso: vendere agli stranieri. Solo che basta farsi un giro dentro ai cinquemila metri quadri per capire che per stranieri s’intende cinesi: tutto è scritto in giapponese e mandarino, i messaggi dagli altoparlanti sono in mandarino, la coda alle casse tax free – cioè per chi lascia il paese entro i tre mesi – è più lunga di quella alle casse normali. Non solo: il 16 per cento degli introiti di Bic Camera arriva da prodotti non tecnologici, ed è per questo che il nuovo superstore di Akihabara vende di tutto: dalle magliette “I love Tokyo” al tè verde confezionato.

 

Già da qualche anno il governo giapponese ha come obiettivo quello di incrementare il turismo dall’estero per arrivare a 40 milioni di visitatori l’anno entro il 2020. Il segmento più facile da attrarre è ovviamente quello cinese, grazie anche a un nuovo, più disteso rapporto tra il presidente Xi Jinping e il primo ministro giapponese Shinzo Abe.

 

Ma in una società dall’equilibrio delicato come quella giapponese, il turismo di massa “è a volte considerato kanko kogai, inquinamento turistico”, scriveva a maggio il Japan Times: “Considerato che la maggior parte dei turisti stranieri nel 2017 arrivava dalla Cina e che oltre l’80 per cento dei giapponesi non ha un’opinione favorevole del paese, va da sé che, nel migliore dei casi, i giapponesi tollerano soltanto il boom di turisti stranieri. Il fatto che il governo incoraggi il turismo cinese – per esempio con la legalizzazione dei casinò – senza cercare attivamente di contrastare la percezione pubblica, sembra aggiungere sostanza all’osservazione cinica di Takeshi Kitano”, celebre attore e regista giapponese che tempo fa, sul tema del turismo straniero, disse in diretta tv che il Giappone stava sacrificando la sua integrità culturale in nome del vil denaro.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.