Foto LaPresse

Il tacco è mio e me lo gestisco io

Giulia Pompili

E' la divisa che uccide l’immaginario sexy. L'obbligo della formalità nel business nipponico

Roma. La filologia dei cancelletti è sempre un argomento interessante, nella neolingua dei social network. Per esempio, l’ultima battaglia giapponese ha per hashtag la parola “#kutoo”, che è piena di significati: oltre a ricordare il ben noto #metoo, è un gioco di parole tra “kutsu”, che significa scarpa, e “kutsuu”, che si legge con la u un po’ allungata, e significa dolore. L’ha lanciato l’attrice trentenne Yumi Ishikawa, una che probabilmente i tacchi li ha messi sempre e solo per sua libera scelta (o per qualche photoshooting, ma lì è diverso) insieme con una petizione da più di diciottomila firme presentata lunedì scorso al ministero del lavoro di Tokyo. Si parla di tacchi, o meglio, della consuetudine per la maggior parte delle aziende giapponesi di “obbligare” le donne a indossare le scarpe col tacco durante l’orario di lavoro. I giornali di mezzo mondo hanno rilanciato la campagna, ribattezzandola come la nuova versione giapponese del #metoo, la grande battaglia femminista che viene da oriente. C’è da dire che quella giapponese, una delle società più tradizionalmente maschiliste del mondo, ha già avuto il suo momento #metoo: si chiamava #watashimo, e ha affrontato qualche processo mediatico ma ancora oggi, se una donna ha bevuto non è mai stupro – per legge. Poi #watashimo è sparito nel nulla, il tempo di capire che il cancelletto non avrebbe avuto grandi effetti sulla società nipponica. Ma c’è una questione più sottile, in questo caso, che andrebbe investigata: da quando le ballerine sono una battaglia femminista? Bisognerebbe anzitutto spiegare che qui non stiamo parlando di tacchi alti, ma di scarpe brutte. Non è una mortificazione della donna che, oggettificata, ha l’obbligo di essere attraente: tutt’altro. La questione, in questo caso, riguarda la divisa, ovvero la sparizione del sé.

   

La divisa della versione femminile del salaryman, il dipendente delle grandi imprese giapponesi, è una decolleté nera con un tacco cinque, massimo sei. E tutto ruota intorno al dress code, appunto, un obbligo dentro il quale sparire, parte dell’ingranaggio perfetto che è la produttività giapponese, dove nessuno ha il diritto di emergere. Se una donna entrasse in ufficio con ai piedi un paio Louboutin di vernice rossa la reazione di disagio da parte dei colleghi sarebbe probabilmente la stessa che se indossasse delle Converse. Insomma, non è il tacco in sé, ma quel tipo di scarpa. Che tutto sommato funziona come il grembiule per i bambini, come il completo scuro per gli uomini. Qualche giorno fa, durante l’ultimo consiglio dei ministri, il primo ministro giapponese Shinzo Abe e il resto del governo si sono presentati alla stampa tutti in maniche di camicia – la camicia kariyushi, quelle tradizionali di Okinawa – per promuovere il Cool Biz. Così si chiama sin dal 2005 la campagna del governo per spingere i luoghi di lavoro ad alleggerire le regole del dress code dei dipendenti, e così abbassare anche i livelli dei condizionatori. Da allora si fa questa scenetta ogni inizio estate, ma poco, anzi niente è cambiato. Gli uomini giapponesi continuano a sentire l’obbligo sociale di usare l’abito blu o nero e la cravatta anche con 40 gradi all’ombra, le donne completi simili, tutti uguali: colori pastello, capelli in ordine, giacca e camicetta coordinate. Nella petizione online, Yumi Ishikawa ha citato questioni di salute – “i tacchi fanno venire il mal di schiena” – e ha detto che le donne devono essere libere di indossare “scarpe basse formali” (appunto, non scarpe da ginnastica), ma il ministro per il Lavoro e la Salute, Takumi Nemoto, l’altro giorno ha replicato durante una sessione pubblica della Dieta: “E’ un fatto generalmente accettato dalla società che i tacchi siano necessari e motivati in alcuni luoghi di lavoro”. Ha ragione: per il Giappone la questione ruota tutta intorno all’etichetta e non alla discriminazione – che è una conseguenza indiretta, certo, ma non cruciale. Anche un trucco troppo pesante sarebbe inaccettabile, e una gonna troppo corta. Ed è qui il cuore del problema, cioè la divisa omologante: il tacco ha senso se serve a essere femminili, è la divisa ad ammazzare l’immaginario sexy.

Di più su questi argomenti:
  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.