L'esercito curdo siriano nella citta' di Rabia, Siria (foto LaPresse)

Gli americani vogliono davvero lasciare la Siria?

Daniele Raineri

Trump ha annunciato di voler ritirare le truppe dalle zone curde, ma forse è un trucco per farsi pagare di più dai sauditi

Roma. L’Amministrazione Trump da una settimana manda segnali contrastanti sulla volontà di rimanere con le truppe nel nord della Siria. Per chi nel frattempo l’avesse dimenticato: ci sono duemila soldati americani in Siria da almeno due anni e il loro numero è in aumento, sebbene con molta lentezza. Gran parte del contingente è formato dalle forze speciali che si occupano di dare la caccia ai capi dello Stato islamico – e che tanta parte hanno avuto nella sconfitta militare del gruppo terrorista – ma ci sono anche forze regolari, che aiutano i curdi, aprono basi e aeroporti militari e usano l’artiglieria, qualche volta contro gli assadisti.

  

 

Soltanto un mese fa tre generali americani hanno visitato – per un’intensa campagna di pubbliche relazioni – la fascia del paese controllato dalle milizie curde addestrate e armate da loro. Una visita ha avuto per scenario Manbij, città che nelle prossime settimane diventerà il punto di attrito tra l’Amministrazione Trump e la Turchia di Erdogan, e dove è stato invitato anche il New York Times per raccontare l’amicizia solida tra Pentagono e curdi in faccia alla minaccia turca. Un’altra visita, questa volta del capo del Comando Centrale, Joseph Votel, ha avuto invece per fondale il paesaggio spettrale delle rovine di Raqqa, l’ex capitale dello Stato islamico in Siria. Il messaggio americano in entrambi i casi era: abbiamo intenzione di tenere sotto il nostro controllo questa parte della Siria grazie all’aiuto dei curdi, e abbiamo un piano solido per spazzare via i resti dello Stato islamico che ancora circolano nella valle dell’Eufrate e per respingere l’espansionismo dell’Iran e della Russia – che tanto preoccupa Israele.

   

In questa strategia c’è anche un grosso non detto: gli americani e i curdi controllano la zona dei pozzi petroliferi – perché li hanno strappati battaglia dopo battaglia ai terroristi dello Stato islamico – e quindi di fatto impediscono alla Siria di tornare autosufficiente dal punto di vista energetico, e per questo deve continuare a farsi mantenere, non si sa ancora per quanto, dagli alleati. E’ chiaro che la questione dei pozzi di petrolio è importante e che l’America conta di usarla per tornare a essere rilevante nei negoziati. Quando all’inizio di febbraio le milizie assadiste rafforzate da compagnie di mercenari russi (a cui è stato promesso un quarto dei profitti del greggio come paga futura) hanno provato ad attaccare i pozzi sono state respinte da un bombardamento americano violentissimo che ha fatto un centinaio di morti, inclusi i russi. Il Cremlino ha riconosciuto le perdite soltanto settimane dopo, ma era stato chiaro a tutti i numerosi attori interessati alla zona che gli americani intendevano fare sul serio.

 

Tuttavia giovedì scorso durante un comizio in Ohio il presidente americano, Donald Trump, ha spazzato via questo stato delle cose e ha detto che le truppe americane avrebbero lasciato presto la Siria. Il giorno dopo ha sospeso il finanziamento per i piani di ricostruzione nelle zone controllate da curdi e soldati americani e questa è stata una smentita orrenda dei generali del Pentagono, che avevano appena promesso ai curdi – e di persona – aiuti sostanziosi nel dopoguerra. I giornali americani hanno cominciato a essere perplessi. Should I stay or should I go, chiedevano, come nella canzone dei Clash. Alcuni hanno ricordato a Trump le sue critiche feroci contro Obama, che con la decisione di ritirare in modo prematuro i soldati dall’Iraq nel 2011 aiutò il ritorno dello Stato islamico, che allora attraversava una crisi profonda e sembrava quasi morto. Se ce ne andassimo adesso e non dessimo il colpo di grazia ai baghdadisti, prosegue il ragionamento, faremmo lo stesso errore. Altri hanno ricordato che è senza senso distruggere il deal atomico con gli iraniani e imporre di nuovo le sanzioni e poi regalare loro di nuovo il controllo sui pozzi di petrolio siriani e la possibilità di muoversi per la Siria senza nessuno che possa sorvegliare e intervenire da vicino (dalle zone curde). L’impressione generale era che a Trump fosse tornato con prepotenza il riflesso isolazionista che lo porta a evitare qualsiasi coinvolgimento – e qualsiasi guaio – fuori dai confini di casa. Nella tensione sempre presente tra lo staff – che tiene molto a un minimo di coerenza decisionale negli affari di politica estera – e il presidente, ancora una volta ha prevalso quest’ultimo.

   

C’è un’altra scuola di pensiero sul voltafaccia molto sbandierato di Trump – che mette in imbarazzo i soldati sul fronte siriano e gli alleati che non vogliono che la Siria diventi un protettorato militare dell’Iran – e sostiene che sia tutta una messinscena per negoziare l’appoggio lucroso dei sauditi. L’incontro alla Casa Bianca tra il presidente e l’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, ha rasentato l’umiliazione per l’arabo, trattato come un bancomat con infinite possibilità di prelievo. Trump ha fatto vedere davanti ai giornalisti e a Bin Salman un cartellone con i contratti sauditi a favore dell’America e tutta l’occasione ha preso una piega da piazzisti d’affari, che probabilmente era giustificata ma era anche grottesca. In breve: Trump dice che vuole ritirare le truppe dalla Siria del nord perché sa che i sauditi vogliono che lui continui la missione militare in quell’area – contro l’Iran – e quindi si aspetta di essere convinto a restare con altre enormi commesse militari.

   

Ieri il Washington Post ha scritto che il presidente ha dato l’ordine di preparare i piani di ritiro dei soldati. Poi nel pomeriggio italiano la Casa Bianca ha rilasciato una nota in cui si dice che lo Stato islamico è stato “quasi distrutto” ma il ritiro non è mai nominato. Nel frattempo l’invio di trecento marine di rinforzo nella stessa zona è andato avanti come se nulla fosse, senza nessun intoppo. E questo rafforza l’idea che i soldati americani continueranno a stare nel nord della Siria ancora a lungo. Forse il ritiro americano dalla Siria è come quello russo, annunciato tre volte e mai realizzato davvero.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)