Il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker (foto LaPresse)

La crisi dei dazi svela che l'occidente ha ceduto alla retorica trumpiana

Eugenio Cau

Sull’importazione di acciaio e alluminio l'Ue e il Regno Unito rispondono in modo irragionevole e infantile

Roma. Quando alla fine della settimana scorsa il presidente americano, Donald Trump, ha annunciato l’applicazione (non ancora ufficiale) di nuovi dazi sull’importazione di acciaio e alluminio, nessuno si è particolarmente stupito. Certo, si tratta di una misura folle e controproducente, ma era già attesa da tempo, Trump ne parla da quando è in campagna elettorale, i retroscenisti americani l’avevano prevista mesi fa, e soprattutto è in linea con il personaggio: il presidente americano è folle e controproducente, di cosa vi stupite? I dazi sono stati interpretati come il primo passo di una manovra di contenimento economico della Cina già ampiamente annunciata in campagna elettorale: anche qui nulla di inusuale. Pechino, intelligentemente, ha reagito alla provocazione con un certo aplomb (i dazi colpiscono soltanto tangenzialmente la sua economia, vedi articolo sopra), ma lo stesso non si può dire degli alleati europei e occidentali – e questo è l’elemento più sorprendente.

 

Fin da venerdì scorso l’Unione europea, che di solito risponde alle follie di Trump con accorati e inutili appelli alla ragionevolezza, ha lasciato trapelare alle agenzie di stampa che, in caso di dazi americani, era già pronta ad adottare misure di ritorsione (leggi: controdazi) per 2,8 miliardi di euro su prodotti come le motociclette Harley Davidson e i blue jeans Levi’s. Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, parlando delle misure ha detto: “We can also do stupid”, anche noi possiamo commettere stupidaggini, che vuol dire: sappiamo perfettamente che imporre dazi economici su un alleato e un partner commerciale è folle e controproducente, ma questa volta, anche se fosse soltanto per rispondere per le rime a Trump, anche noi europei siamo pronti a essere folli e controproducenti. E’ la prima volta che succede.

 

Trump, ovviamente, ha risposto. Se voi mettete imposte sulle Harley, noi tasseremo l’industria automobilistica europea, ha twittato furioso nel corso del fine settimana, mentre gli analisti, presi tra i terrificanti risultati delle elezioni italiane e la prospettiva di questa inattesa rissa commerciale tra alleati, disperavano. Era arrivato il momento che Bruxelles facesse valere la sua maturità, evitasse l’escalation e abbozzasse qualche parola di buon senso. Invece no. Parlando con il Financial Times, un diplomatico europeo ha detto: “Siamo pronti, e reagiremo”, come se Bruxelles si stesse preparando a respingere un attacco della Luftwaffe, e non a un negoziato commerciale con il più storico alleato dell’Europa. E’ una risposta durissima, dichiaratamente irragionevole e infantile nella sua testardaggine – è una risposta trumpiana.

 

Questa crisi commerciale, che da boutade twittarola del presidente americano si sta trasformando in un rischio non remoto per la crescita economica mondiale, almeno a leggere i giornali finanziari, è il banco di prova di un fenomeno generale: la retorica trumpiana, fatta di ultimatum insulsi, ridicole dimostrazioni di forza, attaccamenti umorali alle argomentazioni e ipocrisia, sta attecchendo anche da noi. Dopo più di un anno e mezzo passato a schermirci, a fare buon viso a cattivo gioco e a trattare Trump per il bambinone che è, cercando di tenerlo lontano dai bottoni rossi, sembra che i leader occidentali abbiano deciso di iniziare a rispondere a tono.

 

Non è solo l’Unione europea. Theresa May, pur non avendo il potere di fare retaliation, visto che la politica commerciale è ancora materia comunitaria, ha fatto a Trump una telefonata dura, pretendendo delle “eccezioni” ai dazi per Londra e per gli alleati europei (Washington ha fatto sapere che non ce ne saranno), mentre il suo portavoce definiva la manovra “ottusa”. Il francese Macron ha invocato l’intervento del Wto e ha chiesto reazioni “proporzionali”. Il solitamente cordialissimo Justin Trudeau, presidente canadese che è campione del trattare Trump con condiscendenza e sorrisi imbarazzati, per una volta è sembrato fare sul serio, ha parlato di misure “inaccettabili” e ha fatto capire che non sarebbe rimasto inerte. Ha delle buone ragioni: il Canada è il primo esportatore di ferro negli Stati Uniti. Anche il Messico, un altro partner storico dell’America, ha promesso rappresaglie dure se Washington non lo escluderà dai suoi dazi. Trump, in tutta risposta, lunedì ha detto che potrebbe togliere i dazi a canadesi e messicani solo nel caso in cui si riesca a stipulare un accordo “fair” (significa: favorevole a Washington) nella discussione per il Nafta, il trattato di libero scambio nordamericano. Un ricatto. I governi canadese e messicano hanno reagito ancora più furiosi.

 

Gli analisti stanno ancora cercando di capire quanto di queste minacce incrociate sia il prodotto di un eccessivo uso di Twitter da parte del presidente e quanto sia un pericolo per la crescita mondiale. Forse però c’è un problema più grave: la violenta retorica trumpiana – e con essa la sua visione del mondo insulare – non sembrano più esclusiva di Trump. 

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.