La guerra necessaria al protezionismo

Redazione

Perché il benessere dei più deboli non si raggiunge costruendo barriere

Se si dovesse citare quali sono i problemi dell’economia mondiale più discussi a Davos, indubbiamente nella classifica ci sarebbe il tema della “disuguaglianza”. Non c’è solo il report di Oxfam sulla disuguaglianza globale che con la sua discutibile metodologia ogni anno, in contemporanea con il World economic forum e con grande riscontro mediatico, ricorda come i ricchi siano sempre più ricchi. C’è anche la naturale preoccupazione di leader politici, banchieri e industriali sull'andamento della disuguaglianza all’interno dei paesi sviluppati e sui frutti della crescita economica che rischiano di essere raccolti solo da pochi, una miscela che è la benzina perfetta per i partiti anti sistema. Ma se per i populisti è semplice e conveniente rispondere con slogan a presa rapida che invocano redistribuzione e protezione, alle classi dirigenti non basta urlare slogan e sventolare bandiere, si devono preoccupare di trovare soluzioni reali. E il protezionismo non è affatto una medicina, ma un veleno che rischia solo di aggravare la malattia e intossicare la società. Lo ha ribadito il presidente della Bce Mario Draghi per rispondere alle esternazioni del segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin, che fanno presagire una guerra valutaria tra Stati Uniti ed Europa.

 

I protezionisti mondiali, che vorrebbero porre un freno alla globalizzazione per aiutare i più poveri tra i poveri, ad esempio dimenticano di dire che pochi hanno vinto dalla globalizzazione come i cittadini dei paesi in via di sviluppo: negli ultimi trent’anni la disuguaglianza globale è diminuita drasticamente, proprio a causa della crescita dei paesi emergenti, e quasi un miliardo di persone è uscito dalla povertà assoluta. Nel mondo i paesi in cui la disuguaglianza è diminuita sono il doppio di quelli in cui è cresciuta, ed è indubbio che questa spinta sia arrivata proprio dalla globalizzazione e dalla maggiore libertà di commerciare e di spostarsi. Naturalmente questo fenomeno epocale ha portato contraccolpi nell’Occidente sviluppato, dove in molti paesi la disuguaglianza è aumentata. Ma per affrontare questo problema i paesi sviluppati dovrebbero pensare a come riformare il proprio modello di sviluppo e in particolare il proprio sistema di welfare, per renderlo più universale e capace di aiutare chi ha vero bisogno. Bisogna proteggere le persone, non proteggersi dagli scambi, dalla concorrenza e dalla competizione. Altrimenti il rischio è di ammazzare la crescita senza risolvere i problemi. E’ la linea che Mario Draghi già esponeva in America a Jackson Hole, quando metteva in guardia sui rischi per la crescita globale che pongono il protezionismo e le sue guerre valutarie e commerciali. “Abbiamo bisogno di protezione, non di protezionismo”, era il succo del messaggio di Draghi. Vale ancora.

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