Donald Trump a Davos (foto LaPresse)

La metamorfosi di Trump a Davos, da mostro populista a riconciliatore

In Svizzera il “make America great again” si trasforma da proclama nostalgico e isolazionista in modello di virtù da replicare in ogni nazione per aumentare la “prosperità”, parola che non appartiene al vocabolario del presidente

“Sono qui per portare un messaggio semplice: non c’è mai stato un tempo migliore per assumere, costruire, investire e crescere negli Stati Uniti”. Com’era prevedibile, nel discorso davanti all’élite globale riunita a Davos, Donald Trump ha fatto perno su un elenco puntuale dei successi americani sotto la sua presidenza, dal calo della disoccupazione al drastico taglio fiscale per sostenere la crescita e aumentare la competitività fino “alla più grande riduzione della regolamentazione mai concepita”.

 

La notizia di una revisione al ribasso della crescita del pil nell’ultimo trimestre del 2017, uscita mentre parlava, ha leggermente mitigato la forza del suo messaggio, ma il presidente sente di avere in mano le prove che dimostrano che la sua impostazione nazionalista è il vero motore della prosperità globale. La capacità dell’America di attrarre investimenti, talenti e di generare ricchezza che si riflette e si diffonde nel resto del pianeta gli ha offerto una scintillante occasione per illustrare la sua filosofia nazional-globalista. La cui massima è: “America first is not America alone”. “Quando gli Stati Uniti crescono – ha detto Trump – cresce anche il mondo. La prosperità americana ha creato innumerevoli posti di lavoro nel mondo e ha alimentato la ricerca dell’eccellenza, della creatività e dell’innovazione negli Stati Uniti”. A Davos il “make America great again” si trasforma così da proclama nostalgico e isolazionista in modello di virtù da replicare in ogni nazione per aumentare la “prosperità”, parola ricorrente nell’orazione davosiana e che non appartiene al vocabolario naturale di Trump.

 

Il presidente americano, bastonato preventivamente dai leader europei e castigato con toni apocalittici giusto ieri da George Soros, si è presentato in qualche modo non come il mostro populista delle nevi svizzere ma come il riconciliatore di due visioni apparentemente inconciliabili, quella dei confini e delle identità particolari contro quella universalista e globalizzata del mondo interconnesso e sopranazionale. La postura sul commercio internazionale è l’area dove questo fragile travestimento mostra quello che c’è sotto, e il presidente americano se l’è cavata con l’ormai consueto appello a riforme per correggere le distorsioni del libero scambio: “Sosteniamo il libero scambio ma deve essere giusto e reciproco, perché alla fine gli scambi iniqui danneggiano tutti”. Si è rivolto agli astanti come leader e corresponsabili del destino delle proprie nazioni, li ha trattati come responsabili di scenari particolari e non come membri del club apolide degli “uomini di Davos”, insistendo sull’idea che la grandezza del mondo si costruisce con la somma di tante piccole grandezze, non con dei progetti congegnati in uno chalet alpino: “Oggi invito tutti voi a far parte di questo incredibile futuro che stiamo costruendo insieme”. L’ultima parola prima dei ringraziamenti è proprio “together”, insieme, uno degli elementi dello slogan elettorale di Hillary Clinton, una vita fa.

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