Mario Draghi (foto LaPresse)

L'"America First" irrita Draghi e testa i limiti della politica monetaria Bce

Alberto Brambilla

Il governatore della Banca centrale europea critica il segretario al Tesoro Mnuchin che parlando ha affossato il dollaro. Così l'Eurotower infrange il "tabù" del cambio. L’euro ai massimi dal 2014

Roma. La Banca centrale europea di Mario Draghi ha inaugurato l’anno ingaggiando una lotta verbale con l’Amministrazione Trump che sta arbitrariamente influenzando il cambio euro-dollaro con l’intento di favorire l’economia americana in ossequio alla strategia “America First”. Per il presidente della Bce il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, ha violato un accordo internazionale che vieta di perseguire l’indebolimento della valuta, mirato a incrementare le esportazioni, mercoledì al World economic forum di Davos. Mnuchin aveva detto che “un dollaro debole è un bene per noi relativamente al commercio e altre opportunità”. Il dollaro ha toccato i minimi da tre anni contro l’euro.

     

Per Crédit Agricole il motivo di una caduta del biglietto verde (-16,3 per cento in un anno) è “misterioso” visto che, in generale, un stretta monetaria come quella prodotta dalla Federal Reserve, con un graduale rialzo dei tassi preceduto dal ritiro degli stimoli, dovrebbe fare apprezzare la valuta. Senza contare che il pil degli Stati Uniti cresce del 3 per cento e un indebolimento del dollaro va in senso inverso ai fondamentali dell’economia. Riferendo della “preoccupazione” del Consiglio direttivo Bce per l’apprezzamento dell’euro, che colpisce i paesi esportatori, Draghi ha detto che alcuni movimenti sono giustificati dal rafforzamento dell’economia e “sono naturali”, altri “forse dovuti all’uso del linguaggio” violano i termini di un accordo di ottobre che impegna i paesi membri del Fondo monetario internazionale ad “astenersi da svalutazioni competitive” e a “evitare di influenzare i tassi di cambio per finalità competitive”. L’intervento di Draghi in conferenza stampa non ha modificato l’andamento del cambio, a 1,25 dollari per 1 euro. 

   

Per Draghi “questa preoccupazione è più ampia del semplice tasso di cambio, riguarda lo stato delle relazioni internazionali al momento – riferendosi ai rapporti con gli Stati Uniti – e c’è una preoccupazione ulteriore. Se tutto ciò dovesse portare a una stretta di politica monetaria indesiderata e non giustificata, dovremmo ripensare alla nostra strategia”. Dopo avere negato a lungo di poterlo fare, Draghi ha parlato per la prima volta di questione valutaria, di “volatilità” del cambio, con una specie di avviso preventivo alla Federal Reserve al cui vertice è stato appena confermato Jerome Powell che agirà in parallelo alla Casa Bianca di Donald Trump che l’ha nominato. La preoccupazione della Bce è che la politica monetaria americana modifichi i piani dell’Eurotower, che rimane pazientemente attendista.

 

La Bce non ha modificato sostanzialmente quanto aveva già comunicato a settembre, confermando una graduale normalizzazione in là nel tempo della politica monetaria. Il Consiglio direttivo ha deciso di mantenere invariati i tassi di interesse e di continuare il suo programma di acquisto di titoli, il Quantitative easing (Qe), per 30 miliardi di euro al mese, fino a settembre e oltre se sarà necessario. Mentre una discussione su quando iniziare a terminare il programma di Qe si svolgerà entro la fine dell’anno, Draghi ha indicato che i tassi di interesse non cambieranno presto, anzi. “Non vedo alcuna possibilità che i tassi di interesse possano essere aumentati quest’anno”, ha detto facendo pensare agli analisti che sarà a settembre 2019, a ridosso della scadenza del suo mandato a novembre, che comincerà la stretta. O che comunque sarà compito del suo successore.

     
Questa settimana i ministri delle Finanze dell’Eurozona hanno ufficialmente iniziato la ricerca di un successore del portoghese Vítor Constâncio alla vicepresidenza e il ministro spagnolo Luis de Guindos s’è fatto avanti. Per la presidenza i papabili sono l’irlandese Philip Lane, il francese François Villeroy de Galhau e il tedesco Jens Weidmann. Fino alla fine dell’incarico i tempi sono lunghi, e Draghi non vuole farsi legare le mani dalle ingerenze americane. Certamente un dollaro debole non può “importare” inflazione direttamente in Europa, dove il minore costo delle importazioni dovrebbe fare diminuire i prezzi dei beni, ma una tendenza inflazionistica in America si diffonderebbe altrove costringendo la Bce ad anticipare una stretta, controvoglia.

 

L’irruzione verbale di Mnuchin ha comunque spinto Draghi a rompere il “tabù” del cambio. E questo potrebbe aprire una riflessione su cosa significhi – dato il mutato contesto – perseguire l’obiettivo di “garantire la stabilità dei prezzi e di sostenere le politiche economiche generali” dei paesi membri assegnati alla Bce dal Trattato sul finanziamento dell’Unione europea.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.