Steve Bannon (foto LaPresse)

Bannon ha un piano più trumpiano di Trump per il 2018

Attaccare tutti i senatori in cerca di rielezione: l'offensiva dell'ex stratega per completare la rivoluzione del Tea Party

New York. Steve Bannon non ha mai temuto di abusare delle metafore belliche nei suoi proclami, e il lancio di una campagna per l’assalto, da destra, dei senatori repubblicani è l’occasione immancabile per rinverdire dichiarazioni di guerra: “C’è una coalizione che si sta formando per contrastare ogni repubblicano in cerca di rielezione eccetto Ted Cruz. Stiamo dichiarando guerra all’establishment repubblicano che non sostiene l’agenda di Trump. Nessuno è al sicuro. Siamo alle costole di ognuno di questi. E vinceremo”, ha detto a Fox News nell’intervista che segna la sua ri-discesa in campo. L’obiettivo della rivoluzione di Bannon è ribaltare gli equilibri della maggioranza al Senato alle elezioni di midterm, portare al Congresso una ventata di nazionalismo populista e ottenere la testa di Mitch McConnell, guardiano dell’establishment che muove i fili di una maggioranza inconcludente. Nello specifico, lo scopo dell’offensiva è rimuovere definitivamente il “filibuster”, la regola che impone una maggioranza qualificata di 60 voti per passare le leggi. Con 52 senatori, al momento il partito si trova con le mani legate, e questo senza contare i tiratori franchi che a ogni disegno di legge violano gli ordini della scuderia Trump.

 

Fra gli obiettivi più abbordabili ci sono le poltrone di Orrin Hatch in Utah, Roger Wicker in Mississippi, John Barrasso in Wyoming e Deb Fischer in Nebraska, e attraverso articoli-comunicati pubblicati Breitbart, Bannon ha fatto trapelare alcuni nomi che potrebbero opporsi nelle primarie. In Wyoming pare che il fondatore di Blackwater, Erik Prince, e il leggendario finanziatore Foster Friess siano interessati a sfidare lo sgradito Barrasso. L’ex stratega di Trump è galvanizzato dalla vittoria, che non esita a definire “storica”, di Roy Moore in Alabama. Lì le cose erano ancora più complicate. Insieme al suo network di conservatori intransigenti ha sostenuto Ray Moore, candidato di rottura opposto a Luther Strange, repubblicano più convenzionale che però aveva il sostegno di Trump. Moore ha seppellito l’avversario, Trump ha cancellato i tweet in cui dava manforte a Strange, la frangia più estrema di attivisti ha potuto presentarla come una vittoria di Davide contro Golia.

 

E’ stato il banco di prova per dimostrare il valore dell’assunto logicamente strampalato ma forse politicamente sensato su cui si poggia il ragionamento di Bannon: l’agenda di Trump si realizza stando lontani da Trump, a volte perfino mettendosi in rotta di collisione con il presidente. Era questo, del resto, il motivo per cui Bannon ha lasciato la Casa Bianca, dove ha scoperto che la palude avrebbe ingoiato tutti prima che potessero tentare di prosciugarla. Bannon, che è stato educato alla scuola di Goldman Sachs e va a braccetto con i modelli di Cambridge Analytica, si basa anche su alcuni precedenti di rilievo. Nelle ultime tornate elettorali i candidati più estremi che sono stati opportunamente sostenuti da un sistema di finanziamenti e lavoro grassroots si sono avvicinati alla vittoria, trasformando in contendibili certi seggi che sembravano blindati per sempre. Detto in altri termini, Bannon sta cercando di aggiustare alcune falle del trumpismo: come ha scritto Ross Douthat sul New York Times: “Quando si tratta di governance, il trumpismo rivela due debolezze fatali: la penuria di trumpiani fra i repubblicani eletti e la totale incapacità politica dello stesso Trump”. L’ambizione è portare a compimento la rivoluzione del Tea Party iniziata nel 2010: “Avendo fallito nel suo ruolo di consigliere di Trump e cervello della Casa Bianca, Bannon ha deciso di riproporre un’altra volta l’ondata del Tea Party, però questa volta mettendo il suo cocktail nazionalista al posto di quello libertario dell’ultimo round”, scrive Douthat.

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