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Prepararsi all'esplosione di Trump, incalzato dal centro e da destra

Il presidente furibondo distrugge le fragili alleanze interne e perde la fiducia dei lealisti. I casi Tillerson, Corker e Bannon

New York. Parlando con i cronisti del Washington Post, un confidente di Donald Trump lo ha paragonato a una teiera sul fuoco che ha bisogno di sfiatare, altrimenti si trasforma in una pentola a pressione e rischia di esplodere: “Siamo nella zona della pentola a pressione”, ha detto. Da settimane il presidente è furibondo, incontenibile. I funzionari riferiscono di scenate cinematografiche che non risparmiano nemmeno i collaboratori più fedeli, con John Kelly, capo di gabinetto e ammortizzatore delle intemperanze trumpiane, che fatica a contenere gli spiriti bollenti. Una delle ragioni per cui è imbufalito è il mancato riconoscimento della gestione, a suo dire impeccabile e meritevole di lode, della sequenza di emergenze legate agli uragani in Texas, Florida e Puerto Rico. Trump si aspettava un’ovazione collettiva che avrebbe fatto dimenticare le faide interne, i malumori e l’inconcludenza sul fronte politico, ma non è andata così, e il presidente si trova nel solito clima da guerra civile e con la colonna delle cose fatte ancora sguarnita.

 

La Casa Bianca di Trump vive di rivoluzioni e riallineamenti, la confusione è la norma, ma secondo la ricostruzione del Washington Post questa crisi non è assimilabile a tutte le altre. In pochi giorni il presidente ha distrutto il sistema di alleanze interne, ha impresso una svolta verso i temi cari ai conservatori sociali eliminando il dispositivo sui contraccettivi obbligatori congegnato dall’Amministrazione Obama, ha rischiato di far saltare un accordo scaltramente congegnato con i democratici sui “dreamers”, si è mostrato minaccioso e ambiguo verso la Corea del nord (“forse è la calma prima della tempesta” è il mantra indecifrabile di un presidente che, non va dimenticato, teorizza l’imprevedibilità come dottrina di politica estera), ha portato al parossismo lo scontro con il senatore repubblicano Bob Corker – diventato “Liddle Bob”, come ai tempi della campagna elettorale – che si è smarcato dal presidente dopo anni di fiducia accordata a naso turato. Anche la First Lady ha perso il suo silenzioso aplomb rispondendo in modo nervoso, petulante a un’intervista di Ivana, la prima moglie di Trump. Lo scontro con il segretario di stato, Rex Tillerson, si è spostato dalla stanza dei bottoni alla stanza dell’asilo, tutto perché il presidente permaloso non gli ha mai perdonato di averlo definito “un imbecille” in presenza di altri. Nell’intervista a Forbes pubblicata ieri, il presidente non ha resistito: “Penso che sia una fake news. Ma se l’ha detto davvero, penso che dovremmo fare la gara del quoziente intellettivo. E posso facilmente dirti chi la vincerebbe”.

 

La misura del nervosismo la dà anche la tendenza a distribuire difese e reazioni non richieste. L’onere tocca al vicepresidente, Mike Pence, lo stabilizzatore della Casa Bianca che ieri ha diramato una nota ai cronisti castigando la “vuota retorica e gli attacchi infondati”. I problemi di Trump si estendono anche ai rapporti con il Congresso, cruciale nell’ottica di ottenere qualche vittoria legislativa dopo tanti colpi a vuoto. Se è vero che l’uscita di Corker non ha immediatamente attivato la reazione a catena che qualcuno si attendeva, altrettanto vero è che l’ex stratega Steve Bannon ha annunciato una campagna per presentare candidati alternativi al Senato per “combattere tutti i senatori repubblicani in cerca di rielezione, tranne Ted Cruz”. Il presidente è incalzato dal centro e da destra.

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