Foto Torrenegra, via Flickr

Quarto potere liberal

Giulio Meotti

Se al New York Times anche le insalate sono razziste, il nuovo columnist di destra è feccia. Il caso Bret Stephens

Roma. Se questa settimana si va in cerca di qualcosa o qualcuno da tacciare di razzismo, c’è l’“insalata dell’imperatore asiatico”, piatto forte nei pub di San Francisco. Bonnie Tsui sulle colonne del New York Times non si lancia in un dibattito gastronomico, ma in una predica sull’intolleranza razziale. “Il razzismo dell’insalata asiatica deriva dall’idea dell’esotico”, scrive Tsui. Se alla grande ammiraglia del giornalismo americano l’accusa di “razzismo” vola così facilmente da colpire anche una banale insalata con richiami orientali, come può essere trattato l’editorialista conservatore in partibus infidelium?

 

Mentre Bonnie Tsui si apprestava a pubblicare la sua tirata sul razzismo culinario, al New York Times assumevano Bret Stephens, premio Pulitzer del Wall Street Journal, ex direttore del Jerusalem Post, intellettuale di destra ma antitrumpiano. Alla notizia del suo arruolamento, i server di posta elettronica e i centralini del New York Times sono stati intasati da proteste e sfoghi indignati (oltre seicento le lettere arrivate). Nulla di nuovo. Quando Bill Kristol arrivò al New York Times nel 2008, Nora Ephron e soci non aspettarono un solo articolo per chiedere di rispedirlo nel buco neoconservatore da dove era arrivato. Alla fine degli anni Ottanta William Safire, ex speechwriter di Nixon, venne avvicinato dall’editore del New York Times, Arthur Sulzberger, che gli propose di scrivere un paio di editoriali alla settimana. Safire accettò e la reazione dei progressisti fu rabbiosa. Max Frankel, futuro direttore del giornale, disse: “Mi venne un colpo”. I reporter spettegolavano: “Ci tocca avere un uomo di Nixon in redazione”. David Halberstam, intellettuale newyorchese, scrive a Sulzberger: “Safire è un imbroglione. La sua rubrica è schifosa e disonesta. Chiudetela o diventerete penosi come Safire”.

 

L’odio per Bret Stephens non ha eguali nella storia recente del New York Times. Gli stessi colleghi di Stephens al Times, alla notizia della sua assunzione, su Twitter hanno insinuato che fosse pure lui, come la Caesar Salad, razzista. Lo ha fatto il capo dell’ufficio del quotidiano al Cairo, Declan Walsh, ricordando che in una column sul Wall Street Journal Stephens aveva parlato dell’antisemitismo come di una “malattia del mondo arabo”. Max Fisher, che scrive di affari internazionali per il Times, twitta: “Dobbiamo accettare tutti di non essere d’accordo sul fatto che sia accettabile o corretto chiamare dei gruppi razziali patologicamente ‘malati’”.

 

Il problema con il global warming

Il primo articolo di Stephens per la Signora del giornalismo è stata contro la teoria del global warming. “ Chiedere cambiamenti repentini e costosi delle politiche pubbliche fa sollevare giustificate domande sulle intenzioni ideologiche”, scrive Stephens esprimendo scetticismo in materia di cambiamenti climatici. Centinaia di lettori hanno scritto e chiamato per disdire l’abbonamento al Times. Su change.org sono partite petizioni per chiedere una punizione esemplare a Stephens. La responsabile dei rapporti con il pubblico del giornale, Liz Spayd, si è vista costretta a intervenire con un articolo a difesa del neoacquisto: “L’ingaggio di Stephens – ha prodotto una impetuosa rivolta tra i lettori e critici orientati a sinistra. Hanno rovistato tra i suoi editoriali in cerca della prova che si tratta di un negazionista climatico, un bigotto o forse di un misogino”. Media Matters for America definisce Stephens “disinformatore”. All’ufficio dei rapporti con il pubblico arrivano più lamentele che mai da quando è stato eletto Donald Trump. Michael Mann, uno dei più noti scienziati del clima (a lui si deve la celebre metafora del grafico a mazza da hockey) scrive alla direzione del New York Times: “Ho disdetto il mio abbonamento al giornale”. Stessa posizione espressa da un altro noto climatologo statunitense, Ken Caldeira. “Ognuno ha diritto alle proprie opinioni ma non ai propri fatti”, ha twittato Caldeira annunciando di aver cancellato l’abbonamento. Dalla Germania si è fatto sentire Stefan Rahmstorf, climatologo e fisico dell’Università di Potsdam. “Dopo essere stato molestato dai sostenitori di Trump, mi viene ricordato che la sinistra malevola non è differente”, ha risposto Bret Stephens. Nel quarto potere liberal, se una insalata dai sapori asiatici può essere tacciata di razzismo, il columnist conservatore diventa un nemico del popolo.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.