L'irruzione al Parlamento di Skopje, in Macedonia

Occidente e Russia tirano i Balcani per la giacchetta

Daniele Raineri

L’irruzione della folla dentro all’Assemblea di Skopje, in Macedonia. Per ora volano soltanto schiaffoni ma fa presto a finire malissimo

Per ora finisce a schiaffoni, tirate di capelli, energumeni in passamontagna dentro un Parlamento e deputati con il naso rotto, cento feriti in tutto. L’irruzione della folla incattivita dentro all’Assemblea di Skopje, in Macedonia, nel sud dei Balcani, per adesso è la realizzazione del sogno a occhi aperti dei sovranisti europei: vi apriremo come una scatoletta di tonno. Però più sul lungo termine è l’eterna debolezza dei Balcani che viene fuori e annuncia tempi cupi per il resto d’Europa, sono loro i primi a ricascare nei nazionalismi, sono loro i più vulnerabili al nuovo clima fatto di odio politico più calcinculo nelle strade più grandi potenze che interferiscono. Blocco occidentale da una parte e Russia dall’altra, soltanto che questa volta l’influenza di Mosca passa per i partiti della destra dura.

 

Una settimana fa i giudici in Montenegro, un’altra repubblica balcanica, hanno accusato quattordici persone, inclusi due agenti dei servizi segreti russi e due deputati, di lavorare a un colpo di stato per rovesciare il governo e bloccare l’ingresso del paese nella Nato – ingresso che invece l’Amministrazione Trump ha approvato in via definitiva alla fine di marzo e avverrà ora in tempi rapidi. Il Grande gioco, si direbbe, se si trattasse di repubbliche centroasiatiche. Ieri un tweet dell’ambasciata russa a Malta l’ha toccata piano: “La reazione coordinata di Unione europea e Stati Uniti alle violenze in Macedonia indica che sono state pianificate con la regia segreta di supervisori esterni”. Del resto i tweet, le accuse sanguinose, la propaganda apocalittica sono lo spartito che dà il ritmo a questi scontri, dall’Ucraina alla Siria ai Balcani (che però sono più vicini a noi e chiedono un plus di cautela): “La Nato vuole vedere il sangue scorrere nelle strade della Macedonia per il progetto della Grande Albania”, avvertiva un titolo di Sputnik, organo ufficiale in inglese del governo russo già a inizio marzo.

 

Del resto la storia di questa violenza in Macedonia potrebbe essere la sceneggiatura di una serie tv, per quanto è moderna e ben fatta. Tutto è cominciato quando il premier Nikola Gruevski si è dimesso nel 2015 perché è saltato fuori che il governo intercettava da quattro anni circa ventimila persone (su due milioni di abitanti), inclusi giornalisti, direttori di quotidiani, politici avversari e anche sei ambasciatori stranieri: un classico. Le elezioni hanno fruttato al paese un risultato papocchio, in cui nessuno aveva i voti per governare, e però alla fine l’opposizione socialista è riuscita a fare un’alleanza con il partito albanese, dieci seggi strategici che darebbero al tandem partitico la maggioranza in Parlamento. Il patto tra socialisti e minoranza albanese però è stato siglato a Tirana, in Albania, sotto gli occhi benevolenti del governo di Albania e secondo la destra macedone apre la strada all’invasione degli albanesi (per esempio il patto prevedeva l’adozione dell’albanese come seconda lingua nazionale). Quando i deputati hanno eletto un nuovo presidente del Parlamento, Talat Xhaferi, di etnia albanese, è scattata l’irruzione. Ora siamo messi così: Unione europea e Washington dicono che Xhaferi sta bene dove sta, la Russia e i conservatori dicono che è una congiura della Nato. Da quando duecento soldati russi occuparono l’aeroporto internazionale di Pristina, in Kosovo, nel giugno 1999 e affrontarono in cagnesco un intero contingente Nato che li circondava in uno stallo tesissimo, l’idea che est e ovest si potessero di nuovo scontrare nei Balcani era più o meno finita nel deposito delle cose e idee vecchie. Ora ne sta uscendo veloce più che mai. I Balcani hanno una vocazione pionieristica per l’intera Europa, meglio tenere d’occhio cosa succede.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)