Venezuelani protestano contro la scarsità di cibo (foto LaPresse)

Leggere Sen per capire che la fame in Venezuela è figlia dell'oppressione politica di Maduro & co.

Marco Valerio Lo Prete
Nel libro dell'economista indiano, premio Nobel per l'Economia, si legge che non è “sensato” affrontare “il problema dei bisogni economici e delle libertà politiche attraverso una dicotomia che nega la rilevanza delle seconde facendo leva sull’urgenza dei primi”. Suggerimenti per Dacia Maraini.

Roma. Maracaibo, mare forza nove, rum e cocaina, zazà. E non solo, purtroppo. Domenica scorsa infatti, la seconda città più grande del Venezuela – 1,6 milioni di abitanti sui 30 complessivi del paese – è stata il teatro di un’operazione militare senza precedenti. Un migliaio di soldati ha fatto irruzione in un mercato alimentare e ha arrestato 387 persone. La loro colpa? Per il governo di Nicolás Maduro questi cittadini non stavano semplicemente facendo compere, ma le stavano facendo al mercato nero per dare man forte alla “guerra economica” che alcuni imprenditori avrebbero dichiarato all’esecutivo. Così, da questa estate, i militari alle dipendenze del ministro della Difesa, il generale Vladimir Padrino López, sono ufficialmente investiti anche della gestione e della distribuzione degli alimenti.

 

E’ il modo in cui Maduro intende “rassicurare” una popolazione che è costretta a spendere in media il 72 per cento dello stipendio mensile per mettere qualcosa sulla tavola (stima della Federazione degli insegnanti venezuelani) e che comunque continua a lamentare di non avere soldi a sufficienza per comprare il cibo che vorrebbe. Prospettive di rapido miglioramento non se ne vedono: quest’anno, secondo il Fondo monetario internazionale, il pil venezuelano si contrarrà del 10 per cento (quello di tutto il Sudamerica solo dello 0,5 per cento), l’anno prossimo dovrebbe scendere di altri 4,5 punti (mentre quello dell’area dovrebbe rimbalzare a più 1,5).

 


Il presidente del Venezuela Maduro (foto LaPresse)


 

Poche ore prima del blitz al mercato di Maracaibo, sabato scorso, sulla prima pagina del Corriere della Sera, la scrittrice e poetessa Dacia Maraini è intervenuta sulle vicende del paese sudamericano con un articolo così intitolato: “Culle di cartone. Segnali dal mondo che precipita”. L’incipit: “Nemmeno nell’Africa nera più povera ho visto mai dei bambini disposti in culle di cartone. Più che culle sono scatole come quelle che si usano nei mercati per esporre i pomodori e le zucchine”. Per descrivere la “crisi umanitaria” in corso, la Maraini dava conto di alcuni cartelli esposti dai dipendenti degli ospedali pubblici: “Janeth, non ci sono antibiotici per la sua infezione”, “Il mio paziente è morto per mancanza di sala operatoria”.

 

Nel lungo articolo, non c’era nemmeno un riferimento all’inadeguatezza del governo venezuelano, alla sua criminalizzazione del dissenso o di chi fa la spesa al mercato nero perché gli scaffali dei negozi sono vuoti. Piuttosto la Maraini scriveva che “il mondo sembra in preda a una malattia mortale: guerre incomprensibili e virali (…); fame, epidemie, migrazioni di massa. Più che mai avremmo bisogno di una classe dirigente responsabile, che unisca i cervelli per trovare soluzioni possibili, pensando in grande, con progetti a lunga scadenza. Invece sembra che la paura abbia accecato la vista, e congelato i pensieri. Tutti si affrettano a chiudere le porte di casa, senza pensare che lo tsunami spaccherà tutto e invaderà ogni piccolo angolo del pianeta se non troviamo in fretta dei rimedi comuni”.

 


Dacia Maraini (foto LaPresse)


 

Se il nesso tra chi “chiude le porte di casa” e la crisi venezuelana rischia di sfuggire ai più, è certo che la teoria economica ha dimostrato da anni come il mondo non stia propriamente “precipitando” almeno dal punto di vista materiale e della sussistenza alimentare, e che invece gli episodi di grave denutrizione (fino addirittura alle carestie) siano oramai addebitabili più alle scelte politiche contingenti che a una natura matrigna. E’ quello che ha sostenuto, tra gli altri e in maniera più autorevole, il premio Nobel per l’Economia indiano Amartya Sen.

 

Il ragionamento di Sen è contenuto per esempio nel suo libro del 1999 “Lo sviluppo è libertà”. Dove si legge che non è “sensato” affrontare “il problema dei bisogni economici e delle libertà politiche attraverso una dicotomia che nega la rilevanza delle seconde facendo leva sull’urgenza dei primi”. L’economista di Harvard si dilunga in particolare sulla “importanza strumentale” della libertà politica: quest’ultima infatti rende più facile esprimere, sostenere e portare all’attenzione dei politici le proprie richieste, comprese quelle che nascono dal bisogno. Da ciò discende la constatazione che “in nessun paese indipendente con una forma di governo democratica e una stampa veramente libera c’è mai stata una carestia grave”.

 


Amartya Sen (foto LaPresse)


 

Sen scrive che “denutrizione, fame e carestie risentono dell’andamento di tutta l’economia e la società, non solo della produzione alimentare e delle attività agricole, ed è essenziale tenere nel debito conto quelle interdipendenze economiche e sociali che governano la diffusione della fame nel mondo di oggi. L’economia non distribuisce gli alimenti per carità, o secondo meccanismi di distribuzione automatica; la capacità di procurarsi da mangiare va guadagnata. E la cosa cui dobbiamo fare attenzione non è l’offerta alimentare totale di un’economia, ma il ‘titolo’ di ogni singola persona, ovvero le merci di cui essa può ottenere il possesso e il controllo; la gente soffre la fame quando non ha più titolo a una quantità di cibo adeguata”. E’ quanto sta accadendo in Venezuela, dove la crisi delle esportazioni (essenzialmente petrolifere) e il collasso dell’economia altamente statalizzata in nome della rivoluzione socialista si accompagnano a un’inflazione stimata al 700 per cento.

 

Secondo Sen, sono fuorvianti i tentativi di interpretare le carestie in termini di disponibilità alimentare media pro capite, visto che è raro che una carestia colpisca più del 5-10 per cento di una popolazione, così che bisognerebbe sempre ricordare che “poiché le carestie sono associate alla perdita del proprio titolo da parte di uno o più gruppi occupazionali in una determinata regione, la fame che ne deriva può essere prevenuta ricostituendo sistematicamente un livello minimale di reddito e titolo per coloro che sono stati colpiti dalla mutata situazione economica”.

 

Insomma, anche se Dacia Maraini sul Corriere della Sera se la prende enfaticamente con “un mondo che precipita”, secondo Sen “la prevenzione delle carestie dipende moltissimo dal modo in cui gli assetti politici proteggono i titoli economici degli individui”. Quando è massima “l’estraneità dei governanti ai governati” si realizzano casi come quello dell’Irlanda tra il 1845 e il 1852, con la popolazione locale ridotta di un quarto in poco tempo e il movimento di derrate che nello stesso tempo proseguiva verso la madrepatria inglese; oppure il caso della carestia che uccise trenta milioni di persone in Cina tra il 1958 e il 1961 sulla scorta del “Grande balzo in avanti” voluto da Mao.

 

La libertà politica elimina le carestie perché, in primo luogo, in democrazia tali calamità sono pagate anche dai gruppi dominanti e politici che invece risultano intoccabili nei regimi fortemente autoritari. Inoltre una informazione e un dibatto liberi – essenzialmente impediti da quando Maduro è arrivato al potere nel 2013, e già ristretti sotto il lungo dominio del predecessore Hugo Chávez (1999-2013) – forniscono notizie e incentivi utili a bloccare sul nascere una carestia. Rifugiarsi nel solito “Piove, globalizzazione ladra!”, come sembra fare la Maraini, non aiuta a fare chiarezza al cospetto dei lettori italiani e non aiuta i venezuelani nella loro battaglia per l’emancipazione.