al Adnani

La faccia segreta del Califfato

Daniele Raineri
Chi era Al Adnani? Dalla rimonta dell’intelligence Usa alla rappresaglia imminente. La scommessa perduta contro i rivali di al Qaida. Le cinque cose da sapere sulla morte del capo stragista dell’Isis.

Il 2016 letale per celebrità come Prince e David Bowie  lo è stato anche per la rockstar dello Stato islamico: Abu Muhammad al Adnani, il ministro degli Attentati, come lo ha definito il settimanale francese L’Obs. Il gruppo stragista è costruito in modo da assorbire gli urti, rimpiazzare le perdite e continuare a combattere, predicare e lanciare attentati, ma in questo caso il colpo inferto dal Pentagono è più profondo del solito. Ecco cinque cose da sapere sulla uccisione di al Adnani martedì 30 agosto a nord est di Aleppo, che spiegano perchè nel mondo del jihad era considerato così importante.
 


 


 

La prima è che se gli americani sono infine arrivati fino a lui, così elusivo e guardingo, possono arrivare a chiunque. L’Amministrazione Obama è partita in ritardo nella lotta allo Stato islamico, era distratta e ha trattato il gruppo estremista come un problema marginale (una squadra del campionato tra licei che vuole sembrare un team del Nba, li definì il presidente Barack Obama nel giugno 2014 in un’intervista al mensile The Atlantic), ma poi ha recuperato. Da più di un anno, l’apparato di intelligence americana ha in qualche modo perforato la bolla di sicurezza che proteggeva i leader dello Stato islamico e ha cominciato a ucciderli in serie. Il ritmo di queste uccisioni dei cosiddetti HVT, high-value target, i leader, sta anche accelerando, perché ogni livello porta più vicini a quello successivo. Nel 2016 i bombardamenti mirati hanno colpito una sequenza di nomi che non dicono nulla al grande pubblico ma che erano la giunta militare che manda avanti lo Stato islamico: tra gli altri il 4 marzo Amr al Absi, il 25 marzo Abu Ali al Anbari, a giugno Abu Ayman al Iraqi, a luglio Omar il ceceno. Si tratta di operazioni non improvvisate, che nascono da mesi di sorveglianza, di intercettazioni e di contatti a terra. Circolano alcune ipotesi su come facciano gli americani. Forse hanno informatori dentro il gruppo, che del resto negli ultimi tre anni ha accettato più di ventimila volontari da ogni parte del mondo e quindi si è esposto al rischio di infiltrazioni. Forse hanno raffinato la tecnica delle intercettazioni a un livello tale da superare le normali precauzioni dei leader dello Stato islamico, che non hanno telefonini e non navigano su Internet. Per esempio a novembre 2015 un drone ha ucciso il kuwaitiano Mohammed Emwazi, più conosciuto come “Jihadi John”, nei pochi passi tra il portone di un edificio di Raqqa e l’auto che lo aspettava davanti, segno che chi lo osservava era al corrente delle sue mosse in diretta. Di sicuro c’è che al Adnani era protetto più degli altri e aveva dimostrato una capacità elevata di sottrarsi alle decine di servizi di intelligence che gli davano la caccia. Era un leader che obbligava i soldati che non facevano parte della sua guardia personale a incontrarlo bendati, se proprio era necessario. C’è però uno schema ricorrente a cui nemmeno al Adnani alla fine è sfuggito: i leader sono quasi sempre colpiti mentre sono in viaggio. Gli americani hanno persino tentato anche una cattura durante uno spostamento, ai danni di Abu Ali al Anbari mentre era in macchina nel deserto siriano a marzo, ma quello s’è fatto saltare in aria per non farsi trascinare su un elicottero delle Forze speciali. Al Adnani è stato colpito dopo essere partito da Raqqa, capitale dello Stato islamico in Siria, mentre viaggiava su un veicolo con cinque guardie del corpo (il che, per bilanciamento opposto, suggerisce che Abu Bakr al Baghdadi sia lontano da Raqqa e in Iraq, per non tenere due capi di rango nello stesso campo di tiro). E’ sorprendente che un leader come al Adnani fosse in giro per il fronte di Aleppo, che è uno dei più in crisi perché sta cedendo sotto l’onda d’urto delle Forze siriane democratiche sostenute dagli americani e di un’incursione mista dell’esercito turco (s’intende, quando queste due schieramenti non si fanno la guerra tra loro). Ieri Mosca ha provato a sostenere che Adnani fosse stato ucciso da un raid russo. Un ufficiale del Pentagono ha risposto via Reuters: “E’ una barzelletta”. Il portavoce della Difesa americana, Peter Cook, è stato più diplomatico: “Non ci sono informazioni per sostenere la pretesa russa, non hanno dedicato molti sofrzi alal caccia dei capi dello Stato islamico e non usano armi di precisione”.

 


L'immagine di al Adnani usata nella propaganda del gruppo jihadista


 

 

La seconda ragione per fare attenzione è che lo Stato islamico pianifica sempre una grande offensiva dopo la morte di ogni leader di spicco. La parola araba che si usa in questi casi è “ghazwa”, che potrebbe essere tradotta come “raid”: in italiano, attraverso i secoli, è poi diventata “razzia”.  L’ha fatto a gennaio in Libia, con una campagna dedicata alla memoria del leader Abul Mughirah al Qahtani ucciso il 14 novembre.  L’ha fatto a maggio, con un’altra grande offensiva in onore del già citato Abu Ali al Anbari. C’è la certezza che in questi giorni lo Stato islamico sta pianificando un attacco per poi confezionare video e materiale di propaganda che sarà etichettato “in memoria del martire, sceicco e combattente del jihad Abu Muhammad al Adnani”. Con una nota da aggiungere. In questi giorni al Adnani è presentato come “il portavoce dello Stato islamico”, ma è un titolo riduttivo –  scriveva Alessandro Baricco a proposito di qualcun altro”,  “è come dire: Roberto Baggio, centravanti italiano”. Al Adnani era il capo dell’intelligence dello Stato islamico che si occupa degli attentati all’estero, secondo una serie di articoli pubblicati sul New York Times che raccolgono le testimonianze di ex membri della rete europea dello Stato islamico. E’ lui che ha creato “l’organizzazione dentro l’organizzazione” che ha lanciato gli attacchi contro i civili di Parigi, di Bruxelles, di Dacca in Bangladesh e di Sousse in Tunisia. Per come funziona l’atroce meccanismo della propaganda baghdadista, è probabile che il prossimo attacco in occidente di grandi proporzioni sarà etichettato come “la ghazwa di al Adnani”.

 


L’ultimo video arrivato da Raqqa venerdì scorso mostra cinque bambini che uccidono alcuni prigionieri. Al Adnani era il leader dello Stato islamico che chiedeva e approvava questo genere di video


 

La terza ragione sta nel comunicato ufficiale che ha annunciato la morte di al Adnani e che gli conferisce il titolo “Husseyni Qureshi”, quindi di lontano discendente del profeta Maometto. Il titolo ha fatto sobbalzare sulle sedie gli osservatori. Dagli analisti seri come Will McCants e Aron Lund agli anonimi cecchini online dei rivali di al Qaida, tutti concordano: è la prima volta che si vede questo titolo collegato ad Adnani. E’ lo stesso titolo di cui si fregia il Califfo, Abu Bakr al Baghdadi, èd è un requisito per succedere a Baghdadi se lui restasse ucciso. E’ un dettaglio importante. Tutti i discorsi di al Baghdadi tengono molto a puntualizzare il legame di parentela, che è anche ripetuto ritualmente nella bay’a, il giuramento di fedeltà che gli fanno i suoi (indirizzato appunto al “comandante dei credenti, califfo Abu Bakr al Baghdadi al Husseyini al Qureshi). La giornalista del New York Times Rukmini Callimachi, che raccoglie materiale su al Adnani, dice che il leader dello Stato islamico ha di recente ordinato un’indagine genealogica per provare la sua lontana parentela (cosa che nel mondo arabo molti leader politici hanno fatto, per vantare un carisma religioso), almeno così le ha detto una fonte vicina alla famiglia. Insomma: al Adnani si preparava a diventare il successore di Baghdadi, nel caso questi fosse stato ucciso, cosa che vista la cadenza delle missioni con i droni era necessario mettere in conto. Invece il successore del Califfo è morto prima del Califfo, e questo scavo genealogico è stato inutile, se non nell’annuncio di morte. perché il titolo non è stato reso pubblico prima? Due leader con lo steso titolo, che dicono cose simili in discorsi che per forza di cosa devono essere postati su Internet. E’ probabile che si volesse evitare l’effetto “due papi a Roma”.

 


L'immigine utilizzata nella propaganda del gruppo, è stata estratta da un video del giugno 2014 con il volto oscurato elettronicamente (sopra) e pubblicata due giorni fa in chiaro (sotto)


 

La quarta ragione per cui la morte di al Adnani conta è che con lui si chiude l’era della continuità storica dello Stato islamico, quella linea che parte dal giordano Abu Mussab al Zarqawi in fuga dall’Afghanistan nel 2011, in rotta verso l’Iraq e arriva a oggi.  Secondo Abu Walid al Salafi, una fonte vicina allo Stato islamico che spesso pubblica dettagli storici sul gruppo, Al Adnani era uno degli ultimi tre del gruppo originale di 43 uomini che fondò lo Stato islamico in Iraq nell’ottobre del 2006, nel mezzo della guerra contro gli americani e il governo di Baghdad. E’ partito da ancora prima: faceva parte dei trentacinque volontari che Abu Mussab al Zarqawi arruolò in Siria nel 2002 per cominciare un jihad locale e che poi trasferì in Iraq quando l’America invase il vicino Iraq nel marzo 2003. Al Adnani era il più longevo tra i leader dello Stato islamico, ha attraversato indenne ogni trasformazione e cambio di nome del gruppo, da Tawheed wal Jihad, la fazione che decapitò il primo ostaggio americano in Iraq – Nicholas Berg, maggio 2004 – ad al Qaida in Iraq allo Stato islamico, inclusi cinque anni di carcere. Secondo un’agiografia scritta da Turki al Binali, un predicatore del gruppo, al Adnani fu uno degli ultimi sei a ritirarsi da Fallujah durante la battaglia del novembre 2004 in cui gli americani presero la città. Gli altri cinque sono tutti morti prima del 201

 


 

La quinta ragione è che al Adnani aveva lanciato una mubahalah, che può essere descritta come una sfida a metà tra il giudizio di Dio e la scommessa. In pratica,  nel marzo 2014 durante un litigio ideologico contro un predicatore di un gruppo rivale – Jabhat al Nusra, divisione siriana di al Qaida fino a luglio – ha invocato la punizione di Dio sopra chi dei due stesse mentendo. Il problema della mubahalah è che non specifica sotto quale forma arriverà la punizione di Allah, ma si intende che sarò chiara e riconoscibile. Dopo quel mese di marzo, lo Stato islamico ha imbroccato una serie stupefacente di vittorie culminate nella presa di Mosul, la seconda città dell’Iraq, e tutti i partigiani di al Adnani hanno avuto buon gioco a dire: “Ecco vedete? Siamo noi i favoriti di Allah, le cose ci vanno che meglio non potrebbero”. Martedì, quando è uscita la notizia della morte di al Adnani in un bombardamento, è stata festa per i tifosi del predicatore rivale, Abu Abdullah al Shami. Ormai pochi ricordano con precisione l’argomento del contendere, ma la mubalahah era diventata il simbolo dell’arroganza vincente di al Adnani (uno che ha intitolato un uso discorso sarcastico contro al Qaida: “Chiedo scusa, o voi leader di al Qaida”). Il bombardamento americano ha chiuso la mubahalah, anche se non era questo, verosimilmente, il suo scopo. Oggi tra i seguaci dello Stato islamico c’è chi prova a sottilizzare e a dire che in ogni caso il martirio per la causa di Allah è una vittoria, ma questo rimane un parere di minoranza. La reazione di al Qaida alla morte del detestatissimo al Adnani è stata scomposta. C’è chi ha ironizzato sull’improvvisa comparsa del titolo di discendente di Maometto. Il portavoce del Fronte per la conquista della Siria (è il gruppo che ha preso il posto di Nusra dopo il cambio di pelle), l’australiano Mostafa Mahamed, che fino a due mesi fa era conosciuto come Abu Suleyman al Muhajir, ideologo di al Qaida, ha celebrato così: “Quando Daesh perde un tiranno, non può che essere una cosa buona per i musulmani. Sì, sto dalla parte dei milioni di musulmani che oggi festeggiano la morte di al Adnani”. Dove già s’intravede il posizionamento di al Qaida per il futuro: lo Stato islamico è una degenerazione per fanatici, destinato a spegnersi e a fallire. E saremo noi più lenti e realisti a offrirci come difensori di tutti i musulmani.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)