La decapitazione dei copti per mano dell'Isis (foto via Twitter)

Abbattere l'Isis ha un costo ma si può fare. Lezioni dal caso Sirte

Daniele Raineri
Cade la capitale dello Stato islamico libico. Qualcosa nell’operazione però non ha funzionato.

Roma. Il fotografo free lance italiano Gabriele Micalizzi racconta al Foglio che ha appena identificato il tratto di spiaggia di Sirte, in Libia, dove nel gennaio 2015 lo Stato islamico ha ucciso davanti alle telecamere 21 ostaggi copti. In quel periodo il capo iracheno che da pochi mesi era arrivato in segreto in Libia (Abul Mughirah al Qahtani) si era appena insediato in quella zona e fu l’inizio del controllo dello Stato islamico sull’ex città di Muammar Gheddafi. Anzi, è probabile che quel primo video – che fece il giro dei media  nel mondo – fosse anche un segnale dato da Sirte alla casa-madre del gruppo estremista in Siria e in Iraq per dire: “Ecco, vedete, siamo operativi”. A provarlo c’è il fatto che non fu pubblicato direttamente dalla Libia, ma che il materiale grezzo fu spedito in medio oriente, alla centrale, e lì editato. Oggi quel che resta dello Stato islamico è chiuso dentro pochi edifici nel Distretto 3 della città, con le spalle al mare e davanti i battaglioni delle forze di Misurata che combattono in nome del governo di Tripoli.

 

La spiaggia che ha fatto parte della scena più nota della presenza dello Stato islamico in Libia – e da dove lo speaker minacciava in modo esplicito Roma – è ormai da settimane fuori dal controllo di chi girò quel video. Tutti i luoghi simbolo del potere del gruppo islamista in città sono stati liberati, pochi giorni fa anche la moschea Cordoba, che nell’agosto 2015 fu teatro di una disperata rivolta di alcuni clan di Sirte contro lo Stato islamico, soffocata con brutalità in tre giorni. La moschea era poi stata ribattezzata “moschea Abu Mussab al Zarqawi”, in onore del capo giordano considerato il padre fondatore dello Stato. Cade la capitale dello Stato islamico libico dunque, il posto dove era possibile filmare adunate militari e uccisioni rituali e trasmettere un’idea di potenza, di governo e di controllo del territorio. Gli uomini dei battaglioni di Misurata impegnati sul fronte di Sirte e  sentiti dal Foglio dicono che il clima è ormai di attesa per la vittoria imminente e completa.

 

Qualcosa nell’operazione però non ha funzionato. Domenica e lunedì ci sono stati più di 50 morti e centinaia di feriti in quello che doveva essere l’assalto finale. In tutto il bilancio dell’offensiva contro Sirte che in teoria sarebbe dovuta durare soltanto poche settimane e che invece sta per entrare nel quinto mese è vicino ai 470 morti. Sono numeri non alti rispetto alla Siria e all’Iraq, ma per Misurata, la città sulla costa che ha fornito quasi tutta la forza dell’attacco, sono troppo pesanti. Il numero dei combattenti all’inizio di questa operazione chiamata Bunyan al Marsous era attorno a seimila, oggi almeno un terzo di loro è finito nella lista dei feriti o dei morti.

 

Ieri è scaduto il termine di trenta giorni dell’autorizzazione data dal presidente americano, Barack Obama, per aiutare la conquista di Sirte con bombardamenti aerei, ma è già stato rinnovato per assistere i libici anche durante gli ultimi giorni dell’operazione. L’Italia ci mette soprattutto appoggio politico, cure mediche per i feriti  – che per il morale dei battaglioni è una cosa ottima, restare feriti a Sirte, a duecento chilometri dal primo ospedale serio non è raccomandabile – e la presenza di consiglieri militari. Ma è come se la catena di comando che lega i battaglioni di Misurata, il governo di Tripoli e i suoi sponsor internazionali, Italia e Stati Uniti in prima fila, funzionasse a singhiozzo. I raid americani sono cominciati il primo agosto, quindi soltanto quando l’offensiva si era arenata e rischiava di finire in stallo. Le forze di Misurata sono una delle due migliori del paese, se anche loro hanno sofferto così tanto, il modello di intervento contro lo Stato islamico, “forze locali più appoggio internazionale” non funziona ancora a regime. Lo Stato islamico ha provato di essere in grado di far pagare un conto altissimo prima di essere sloggiato, e questa resistenza feroce in Libia resterà come avvertimento per il futuro.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)