Un messaggio di cordoglio per le vittime degli attentati di Parigi recita "Non potete dividerci" (foto LaPresse)

L'invettiva di Zemmour lo scorretto contro le fornaci di jihadisti in Francia

Mauro Zanon
L’integrazione tra comunità opposte per ancoraggio valoriale è fallita, scrive il polemista parigino sul Figaro

Parigi. Bisogna piantarla con il buonismo e ripensare la lotta al terrorismo senza occhiali ideologici, senza autocensure. E’ giunta l’ora per tutti di togliere il velo che a lungo ha nascosto verità ora venute drammaticamente a galla, come l’esistenza non di una ma di più “Molenbeek in Francia”. “Molenbeek è in Francia”, è il titolo dell’ultimo articolo al vetriolo di Eric Zemmour, la plume più scorretta del Figaro; un articolo dove ancora una volta il polemista parigino sbatte in faccia ai benpensanti la realtà che loro hanno scelto di non vedere, preferendo baloccarsi nell’idea che con qualche campagna mediatica contro la discriminazione in più l’integrazione tra comunità opposte per ancoraggio valoriale sarebbe riuscita. “In questa terra di islam, i miscredenti musulmani – così come i cattivi musulmani – non hanno il loro posto. Devono essere cacciati, con le buone o con la forza. Vengono minacciati, picchiati, derubati. Nelle Molenbeek francesi, non ci sono più, praticamente, i miscredenti non musulmani: non ci sono più i ‘Galli’, i ‘Francesi’. Non ci sono più i cristiani, gli ebrei. Resta qualche cattivo musulmano. Un cattivo musulmano è colui che oggi non si piega alla versione rigorista del salafismo che i petrodollari dell’Arabia Saudita ha diffuso dappertutto – e in particolare tra la gioventù araba dei paesi europei”, attacca il giornalista del Figaro.

 

Le Molenbeek francesi si chiamano Trappes, Sarcelles, Roubaix, Le Mirail, sono i quartieri nord di Marsiglia, le banlieue del Seine-Saint-Denis, lì dove si vive secondo Maometto e Marianne è soltanto il nome di qualche ragazza “bourge” che vive lontano. Zemmour mette la Francia dinanzi alle sue innumerevoli contraddizioni, dinanzi ai patti diabolici dell’esecutivo socialista – patti irrorati con Rafale, armi, Legion d’honneur e quote importanti nei gioielli industriali nazionali – con quei paesi che finanziano e fomentano il terrorismo islamico che uccide. Per troppo tempo sono stati dimenticati, quelli che il sociologo Georges Bensoussan chiamò nel 2002 i “territori perduti della République” e che ora si farebbe meglio a chiamare “fornaci di jihadisti”.

 

Eppure erano lì, a qualche chilometro, appena oltre il périph, la grande cintura che protegge e separa Parigi dalle banlieue. Gli stessi che avevano trattato Zemmour come un invasato, un allarmista, ora, dopo le stragi jihadiste di Bruxelles, iniziano a riprendere, seppur con molta fatica, le sue analisi. Non Jean-Luc Mélenchon, tribuno folkloristico dell’ultrasinistra francese, famoso per aver manipolato l’intervista rilasciata da Zemmour al Corriere della Sera, facendo passare il polemista réac per un sostenitore della “deportazione” dei musulmani – parola mai pronunciata da Zemmour, ovviamente – e accodare tutta la stampa benpensante alla messa in azione della Grande Macchina del Fango. Libération non aspettava altro per alimentare l’attacco mediatico contro il nemico pubblico numero uno, autore di quel “Suicide français” messo all’indice dal Tout-Paris, e però bestseller in tutta Francia (500mila copie). E così, un anatema dopo l’altro, Zemmour fu licenziato dal palinsesto di i-Télé, mettendo fine a una collaborazione che durava da più di dieci anni. Ora officia sul Rtl due volte a settimana (prima dell’arrivo di Hollande all’Eliseo erano cinque gli appuntamenti settimanali della rubrica), in televisione non lo chiamano quasi più, ma sul suo Figaro continua a pungere con la stessa efficacia di quando negli anni Ottanta era il cronista parlamentare più temuto dai politici francesi: “Per molto tempo, abbiamo sognato che l’Europa diventasse una Francia in grande. Ora però, siamo costretti ad ammettere che il Belgio è una Francia in piccolo”.