Due donne passeggiano per il quartiere di Molenbeek, a Bruxelles

Diario di un'infiltrata islamica accusata di aver detto la verità su Molenbeek

Marco Valerio Lo Prete
Il reportage nel "mini califfato" belga di Hind Fraihi, che non crede alle tesi per cui i terroristi sono allevati dalla propria disoccupazione o dall’islamofobia altrui.

Roma. Hind Fraihi, giornalista d’inchiesta belga classe 1976, dieci anni fa chiese al direttore del suo giornale in lingua fiamminga, Het Nieuwsblad, di concederle due mesi di tempo per raccontare il quartiere brussellese di Molenbeek. Aggiunse che era necessario farlo sotto una qualche copertura, magari quella di una ricercatrice di Sociologia. Soltanto così, disse, avrebbe potuto svelare il volto nascosto di un mondo che riteneva si stesse muovendo in parallelo e all’oscuro di quello della capitale dell’Unione europea. Un mondo che pure iniziava a inviare all’esterno segnali inquietanti, come era stato l’omicidio del regista Theo van Gogh avvenuto per mano di un fondamentalista islamico ad Amsterdam, il 2 novembre del 2004.

 



 

La trasformazione in “mini califfato” di Molenbeek – quartiere di Bruxelles nel quale sono cresciuti, si sono organizzati e rifugiati alcuni degli attentatori del Bataclan a Parigi (13 novembre 2015) e della capitale europea (22 marzo 2016) – era iniziata ancora prima. La Fraihi avviò infatti il suo reportage incontrando Ayachi Bassam, predicatore fondamentalista con doppia cittadinanza, belga e siriana, ora dato per disperso in Siria dove è andato a combattere Assad. Quando l’autrice lo incontra, nel 2006, Bassam è già conosciuto per le sue invettive infuocate contro i vizi della società occidentale, per le sue minacce di morte all’allora ministro dell’Interno francese Sarkozy, ma ancora libero di dirigere il proprio Centro islamico del Belgio. Seguendo la Molenbeek-connection, la giornalista scopre che Bassam ha celebrato proprio a Bruxelles le nozze del tunisino Abdessatar Dahmane con una cittadina locale, lo stesso Dahmane che due giorni prima dell’11 settembre 2001 si fa esplodere in Afghanistan uccidendo il comandante Massoud, leader anti talebano. Bassam confida alla giornalista, travestita da studentessa, che i veri “estremisti” sono quegli uomini che non si battono per uno stato regolato dalla sharia e quelle donne che non indossano il velo. Questo è l’inizio di un viaggio che Fraihi, ragazza belga di fede islamica e di origine marocchina, descrive come “sconvolgente”.

 

Non ci sono soltanto i soliti ragazzi borderline dediti allo spaccio di droga e compulsatori di rivendicazioni dei terroristi sui siti web. Ci sono anche le porte di decine di moschee e sale di preghiera che si spalancano davanti alla giornalista in tutto il quartiere, anche lì dove non erano segnalate, in cui i nomi dei politici locali sono pressoché sconosciuti e invece si ascoltano sermoni sulla resistenza palestinese e irachena all’invasore occidentale. Ci sono alcuni “fratelli” e “sorelle” islamici che riprendono verbalmente la Fraihi – in francese, ça va sans dire – perché ha lasciato i capelli al vento: sono distanti anni luce, ragiona lei, dalle sue amiche d’infanzia che in Marocco prendono il sole in bikini.

 


La giornalista Hind Fraihi


 

La giornalista segnala l’indirizzo e descrive gli interni di un centro culturale di Molenbeek nella cui biblioteca campeggiano libelli antisemiti come il Protocollo dei Savi di Sion e manuali di condotta pubblicati e donati dall’Arabia Saudita in cui alla donna si prescrive di comportarsi come una “perla protetta”. Trasmette al lettore il suo stupore dopo essere entrata in un appartamento adibito illegalmente a palestra, dove vige una rigida segregazione delle donne e l’obbligo per loro di interrompere gli esercizi ogni tot minuti per pregare. E’ uno spaccato nell’oppressione continua a danno di migliaia di cittadini belgi e immigrati, quello descritto dalla Fraihi, che da islamica dice di non credere alle tesi per cui i terroristi sono allevati dalla propria disoccupazione o dall’islamofobia altrui. I problemi, piuttosto, sono “l’istituzionalizzazione dell’islam radicale”, “la moschea eretta a bastione politico”, “i politici di destra e di sinistra che chiudono gli occhi in nome del politicamente corretto”. “Un attentato a Bruxelles in nome di Allah? E’ solo una questione di tempo”, scriveva la Fraihi nel 2006 nel pamphlet “En immersion Molenbeek”. Anche per questo fu accusata di “islamofobia”. Lei, belga islamica, messa all’indice dal sindaco socialista e multiculti di Molenbeek.