Il presidente russo Vladimir Putin (foto LaPresse)

Leader razionali

I conti di Putin in Siria per ora tornano, anche se Obama dice il contrario

Il presidente americano dice che la Russia finirà nel “pantano della Siria”, che il tentativo di consolidare il potere di Bashar el Assad “non funzionerà”, ma i funzionari di Washington ammettono che la strategia russa sta dando frutti. Obiettivi divergenti e dialoghi di pace.

New York. Barack Obama dice che la Russia finirà nel “pantano della Siria”, che il tentativo di consolidare il potere di Bashar el Assad “non funzionerà”, che Vladimir Putin è stato “trascinato in una guerra civile inconcludente e paralizzante”, proprio lui che è un avanzo del Diciannovesimo secolo risciacquato nello stagno ideologico della Guerra fredda. A microfoni spenti i funzionari dell’Amministrazione dicono il contrario. Putin sta già raccogliendo ciò che ha seminato, usando una scaltra mistura di oculatezza e spregiudicatezza. Il regime di Assad “è in una posizione più sicura” grazie al sostegno militare della Russia, ha detto un ufficiale americano all’agenzia Reuters nel contesto di un’inchiesta su quello che davvero Washington pensa della campagna siriana di Putin. L’immagine che emerge è quella di una campagna efficace rispetto all’obiettivo primario, puntellare il regime di Damasco e consolidare i territori che controlla, una missione largamente “successful” condotta con “spese relativamente basse” e perdite minime. Gli analisti della Casa Bianca stimano che lo sforzo bellico russo possa costare fra uno e due miliardi di dollari l’anno, una piccola frazione di un bilancio della Difesa da 54 miliardi. Il prezzo del petrolio danneggia l’economia russa in generale, ma in questo frangente aiuta a ridurre le spese della macchina bellica.

 

Il Cremlino dice che dall’inizio della campagna, a settembre, ha perso tre uomini in Siria, su un contingente di circa cinquemila. Per gli americani i soldati russi uccisi sono circa trenta, un costo umano comunque sostenibile nei calcoli di Putin. “I russi non si sono gettati alla cieca in questa operazione, stanno ricavando benefici”, ha detto un’altra fonte della Reuters, e il primo beneficio è aver fatto scivolare via la cacciata di Assad dal tavolo delle trattative. Il 25 gennaio, alla ripresa dei colloqui di pace di Ginevra, il governo siriano si presenta come un interlocutore consolidato da mesi di campagna militare a trazione russa. E agli occhi di Washington, Putin si è trasformato giocoforza in un leader razionale che persegue con abilità da scacchista l’obiettivo di spezzare l’opposizione al regime nella parte occidentale del paese, consolidando il controllo della striscia alawita che congiunge Damasco al porto di Tartus fino a Latakia, la base da dove partono i caccia russi. E’ una logica di frazionamento, non di riconquista dell’intero paese. Seguendo questa logica, la direttrice dell’iniziativa russa è la ripresa di Aleppo, cosa che mette gli interessi di Putin in contrasto con quelli della coalizione a guida americana, che mira innanzitutto a distruggere lo Stato islamico e a mettere sotto assedio la sua autoproclamata capitale, Raqqa. La selezione dei target dei bombardamenti russi in questi mesi ha messo in chiaro la divergenza degli obiettivi strategici.

 

Qualche giorno fa uno strike russo nei dintorni di Damasco ha ucciso un importante leader dei ribelli, Zahran Alloush. Alloush non era fra i comandanti fidati dell’America, ma il dipartimento di stato non l’ha presa bene: “Attacchi come questo complicano gli sforzi per creare un negoziato credibile”, ha detto un portavoce di Foggy Bottom. Ciò che complica la posizione di Obama non è l’attacco in sé, né la generale riluttanza russa nel colpire lo Stato islamico, quanto il dover ammettere che Putin non è un leader irrazionale o disperato che s’è gettato nel pantano siriano per assecondare la sua aggressività congenita e soddisfare anacronistici appetiti imperiali.