Bombardamento di infrastrutture energetiche dello Stato islamico. Immagini diffuse dalle autorità russe (foto LaPresse)

La linfa del terrore

Leonardo Bellodi
All’inizio del febbraio di quest’anno, l’Europa e la comunità internazionale erano ancora sotto choc per la strage di Charlie Hebdo a Parigi. Alla Cia c’è invece chi vuole replicare il “metodo Falcone” per tracciare i finanziamenti dello Stato islamico.

All’inizio del febbraio di quest’anno, l’Europa e la comunità internazionale erano ancora sotto choc per la strage di Charlie Hebdo a Parigi. Negli stessi giorni, al di là dell’ Atlantico, David Cohen, un elegante signore laureato in legge a Yale, veniva designato deputy director della Cia lasciando così il suo incarico di undersecretary del Dipartimento del Tesoro, dove era conosciuto come “Mr. Sanctions” essendo a capo della potente sezione che si occupava di sanzioni internazionali (Cuba, Libia, Iran e da ultimo Russia) e di flussi finanziari illeciti. David non ha un passato da agente segreto; è molto più vicino al mondo finanziario piuttosto che a quello delle “covered operations”, ma la sua nomina ha un significato preciso: l’intelligence economica è oggi più che mai uno strumento indispensabile nella lotta al terrorismo, alle organizzazioni criminali internazionali, a tutti i movimenti riconducibili al fondamentalismo islamico da Daesh/Isis a al Qaida passando per Al Shabaab in Somalia.
Un concetto certo non nuovo che era già caro a Giovanni Falcone, che ha pagato con la vita la sua intuizione; egli ripeteva sempre che per capire, individuare e combattere la mafia, un’organizzazione che molto ha in comune con certi movimenti fondamentalisti, era necessario tracciare e ricostruire i flussi di denaro.

 

Oggi, ancora una volta a partire da Parigi, la comunità internazionale si chiede cosa può fare di più e di meglio per contenere, contrastare e possibilmente sradicare queste organizzazioni. Se non vi è accordo unanime sull’efficacia e sulle modalità dell’intervento militare, tutti concordano invece sulla necessità di aumentare le nostre capacità di intelligence mettendo l’accento su quella finanziaria per capire come e dove le organizzazioni terroristiche si procurano i soldi, dove li depositano, come li trasferiscono e a chi. Questi movimenti infatti nel momento in cui sono sempre di più strutturati, geograficamente trasversali, desiderosi di sostituirsi ai legittimi governi controllandone i territori e fornendo i servizi primari alle relative popolazioni, hanno bisogno di ingenti risorse economiche. Seguendole si arriva a identificare i capi dell’organizzazione, eliminandole si erode la loro capacità di creare consenso tra le gente e si riduce la possibilità di finanziare attentati terroristici all’estero. Bisogna dunque capire come e dove queste organizzazioni fanno i soldi, come e a chi li trasferiscono e quali sono gli impieghi finali delle risorse finanziarie che hanno a disposizione, Occorre insomma tracciare tutta la filiera finanziaria. Non è un compito facile: un recente rapporto delle Nazioni Unite ha messo in evidenza una crescente interconnessione tra gruppi terroristici, organizzazioni criminali e il fondamentalismo islamico; legame che abbraccia tutto la regione del Mena (Middle East North Africa), il Sahel (che si estende per 9 milioni di chilometri quadrati e ricomprende ben dieci Stati), la Somalia, la Colombia e forse il Messico. Ci troviamo così di fronte a un insieme variegato di entità, a volte alleate, a volte in lotta o competizione. L’Isis/Daesh, Aqim (Al Qaida nel Magreb), il Mujao (Movimento per l’unicità e la jihad in Africa dell’Ovest), il Mnla (il Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad nel Mali), Boko Haram (in Nigeria), Ansar Eadine (gli ausiliari della religione islamica che opera nell’ Africa nord-occidentale), Al Shabaab in Somalia, il Farc (Colombia), hanno finalità e modalità di azione diversissime ma tutte rappresentano un pericolo per l’occidente e soprattutto tutti hanno rapporti, più o meno diretti, con la Libia che sta diventando uno dei più importanti hub mondiali dei traffici illeciti. Qui le organizzazioni terroristiche trovano riparo o fanno transitare armi leggere e pesanti, droga, petrolio, diamanti, uranio, rame, bauxite, argento, legni pregiati, i famosi pick up Toyota dove vengono montate armi pesanti, e purtroppo esseri umani. Questi traffici ali-mentano le casse di molti criminali, dei movimenti di liberazione e anche dell’Isis, sempre più bisognosa di denaro, che non solo gestisce direttamente alcuni traffici ma guadagna chiedono il pedaggio per il passaggio “sicuro” di beni e cose nei vasti territori che controlla. Un passaggio che non è solo nella direttrice sud-nord ma anche est-ovest e ovest-est, creando una rosa dei venti del crimine. In questi ultimi anni, i traffici sono così numerosi che vi è vera e propria escalation dei costi legati alla loro protezione, si pensi che il prezzo di un Ak-47, il tristemente famoso Kalashnikov, è passato da 3.000 dinari libici a più di 13.000.

 

Il fatto che movimenti jidahisti si finanziano anche attraverso l’imposizione di pedaggi crea un problema dal momento che questo li incentiva a controllare regioni sempre più grandi in modo sempre più esclusivo. Ciò determina sempre maggiori profitti che servono a conquistare e controllare territori ancora più grandi in una sorta di viziosa spirale (strategia tra l’altro coerente con l’obiettivo di al Qaida e Isis che mirano alla realizzazione di un califfato seppure con modalità assai diverse).

 

Quale che sia il fine ultimo perseguito da queste organizzazioni, hanno tutte un tratto comune: hanno bisogno di sempre più soldi. Mokhtar Belmokhtar, il famigerato comandante salafita di origine algerine, famoso per il suo essere guercio e per essere stato più volte dichiarato morto, quando era a capo di Aqim era conosciuto come Mr. Marlboro perché aveva creato un sistema di contrabbando di sigarette per l’Algeria, Egitto, Marocco, Libia e Tunisia (i cui abitanti consumano quasi la metà delle sigarette di tutta l’Africa) del valore di circa 1 miliardo di dollari. Tanti ma nulla in confronto al nuovo traffico a cui si è dedicato per finanziarie la sua nuova organizzazione terroristica Al Mourabitoun: quella delle droga. Secondo l’Unodc, l’ufficio delle Nazioni Unite sulle droghe e i crimine, tra le 40 e le 80 tonnellate di cocaina ogni anno arrivano in Africa Occidentale via nave o aereo percorrendo il 10° parallelo, la distanza più corta tra i due continenti. Alla fine del 2009, le autorità del Mali hanno scoperto a nord di Gao, una città del Mali, la fusoliera di un Boeing 727, che si era schiantato in fase di atterraggio in una pista in terra battuta costruita ad hoc, e che avrebbe trasportato 10 tonnellate di droga. La destinazione finale è l’Europa, dove arriva dopo aver attraversato il Sahel e la Libia attraverso piste controllate da tempi immemorabili da Tuareg e Tebu e ora anche dalla Jihad. I rapporti tra queste tribù e movimenti jihadisti non sono ancora molto chiari. Quello che è certo è che il rapporto funziona dal momento che la droga arriva alla destinazione finale. Non è affatto semplice snidare queste organizzazioni. Conoscono e controllano il territorio, si nascondono nel deserto e riparano persone e cose in caverne che difficilmente possono essere identificate da sistemi infrarosso a causa del calore che scalda le rocce.

 

Vi è dunque una regione, denominata il triangolo di Salvador, tra Mali, Niger, Algeria e Libia del sud, dove campi di addestramento di varie organizzazioni, depositi e basi logistiche di arrivo e di partenza delle merci sono stati costruiti ed operano senza particolari difficoltà. Le stesse Nazioni Unite hanno affermato d recente che nemmeno l’Operazione Barkhane, un accordo tra truppe francesi e cinque paesi del Sahel, ha avuto il successo sperato per sradicare questi movimenti.

 

Oltre alla droga, alle sigarette, al contrabbando di macchine rubate, di medicinali, le organizzazioni terroristiche/criminali hanno anche altri modi di far soldi che non poco preoccupano la comunità internazionale come ad esempio il traffico di armi e di esseri umani. In Libia, circola un numero enorme di armi: all’epoca di Gheddafi, l’arsenale del suo esercito aveva in dotazione più di 700.000 armi, la stragrande maggioranza delle quali era costituita da fucili d’assalto. Vi erano poi lanciamissili antiaereo portatili Manpads e SA7, si dice 22.000, che sono stati rintracciati solo in parte (circa 7.000). Secondo il panel di esperti Onu sulla Libia, questo paese, e in particolare la Cirenaica e Bengasi, è diventato il crocevia per il traffico di armi verso il Sinai. Parte di queste armi restano in Egitto, parte sono solo in transito per poi arrivare più a est. Armi libiche sono infatti state trovate nella striscia di Gaza. Ma le organizzazioni che operano in Libia non si limitano a vendere ciò che hanno trovato negli arsenali di Gheddafi. Armi nuove e relative munizioni sono in circolazione, soprattutto di fabbricazione cinese. Secondo l’Onu, nel continente africano circolano 100 milioni di armi, 10 milioni nel solo Sahel.

 

Vi è poi il drammatico fenomeno del traffico di esseri umani. Nel 2010, ultimo anno del regime di Gheddafi, circa 4.500 persone erano approdate in Europa dalla Libia. Oggi sono centinaia di migliaia. Dal Niger e dall’Africa subsahariana del sud ovest arrivano nella città di Sebha, dal Chad a al Kufra, dall’Egitto i rifugiati siriani attraversano il labile confine con la Cirenaica. Secondo alcuni, l’Isis non solo organizza alcuni di questi traffici (soprattutto quelli dalla Siria) ma li alimenta attaccando campi di rifugiati siriani al confine con il Libano e la Giordania per costringere i residenti a scappare attraversando i confini.

 

Vi è poi il contrabbando di petrolio. Qui la situazione è molto differente da paese a paese. L’Isis opera 350 pozzi in Iraq e il 65 per cento dei campi petroliferi siriani (tra i quali quello di Al Omar, di gran lunga il più importante nel paese), controlla raffinerie (due in Siria e una in Iraq), usa come canali di vendita quelli messi in piedi da Saddam per eludere il programma oil-for-food, costruisce o sfrutta oleodotti (ne è stato trovato uno di tre chilometri per la vendita di greggio in Turchia). Si calcola che grazie al petrolio l’Isis abbia messo da parte circa 3 miliardi di dollari. Sono in molti ad affermare che l’Isis sta facendo affari con entità statali: in Siria, Turchia e con autorità curde. In una lettera inviata ad alcuni governi, Mark Wallace, ambasciatore alle Nazione Unite durante la presidenza di George Bush, accusa apertamene alcune società curde operanti in Iraq di essere colluse con l’Isis per l’evacuazione, il trasporto e la vendita di greggio trattato nella raffineria di Baiji, a nord di Tikrit. In Libia la situazione è diversa. I campi sono per la stragrande maggioranza situati in zone desertiche molto lontane dai centri abitati, controllati e protetti da kabile pagate dai istituzioni governative. Non è pertanto facile prendere il controllo dei campi libici, né sarebbe agevole l’evacuazione del greggio e quasi impossibile la sua raffinazione in loco. Forse è anche per questa ragione che l’Isis in Libia, a differenza di quanto sta facendo in Siria e Iraq, attacca, per danneg-giarli, campi petroliferi e stazioni di pompaggio. In un recente numero della rivista Dabiq, l’ Isis afferma di voler colpire l’Italia e l’ Europa minando gli approvvigionamenti energetici di petrolio e gas provenienti appunto dalla Libia. Vi sono però indicazioni che vanno in senso contrario. L’Isis infatti, sfruttando la rivalità tra i Tuareg e i Tebu e il fatto che non vi sia un governo di unità nazionale capace di coalizzare alcuna forza contro di esso, sta occupando la zona prospiciente il Golfo della Sirte e controlla ora il porto di Sidra; da questa regione potrebbe cominciare a produrre e vendere greggio. Ciò che è certo è che l’Isis in Libia sta facendo affari d’oro rivendendo prodotti pesantemente sussidiati da ciò che resta delle istituzioni libiche. La Libia spende più di 13 miliardi di dinari (circa 10 miliardi di dollari) per l’acquisto dall’estero di prodotti alimentari, fertilizzanti, medicine, che cadono poi nelle mani dell’Isis e di organizzazioni criminali che le rivendono in paesi limitrofi.

 

Un documento ritrovato di recente in Siria aiuta a chiarire le esatte proporzioni dei proventi dell’Isis nei territori occupati: circa il 28 per cento dal contrabbando di greggio, il 45 per cento da attività criminali varie e confische, il 24 da tasse e gabelli e il 3 da vendite di elettricità alla popolazione. Ma di quanti soldi esattamente hanno bisogno queste organizzazioni?

 

La situazione è diversa da movimento a movimento. Al Qaida è stata tradizionalmente dipendente da contributi provenienti da organizzazioni para statali che operavano in alcuni paesi del Golfo, da organizzazione non governative, e da un impiego improprio dello Zakat, l’obbligo che hanno i musulmani di devolvere una percentuale del proprio patrimonio. Per contro l’ Isis, negli otto anni di gestazione prima di diventare un quasi Stato, si è finanziata con attività criminali, invia compreso il lucroso business dei rapimenti.

 

Oggi tutto questo non basta più. Isis/Daesh controlla infatti un territorio più grande della Gran Bretagna con una popolazione, se così si può dire, di circa 12 milioni di abitanti, detenendo asset del valore di 200 trilioni di dollari e con rendite annuali che superano i 3 miliardi di dollari. Isis nei propri territori tassa praticamente tutto: il traffico telefonico, i prelievi dai bancomat, l’uso delle strade, l’attraversamento delle frontiere da essa controllate (800 dollari per ogni camion che attraversa la frontiera tra Iraq, Giordania e Siria), esige una parte dei proventi della vendita di beni archeologici (il 50 per cento a Raqqa, “solo” il 20 per cento ad Aleppo), chiede un contributo per la protezione di comunità non musulmane (la cosiddetta jizya).

 

[**Video_box_2**]Tutto questo deve finanziarie i combattenti, coloro i quali hanno compiti amministrativi, le mogli e i figli che non lavorano (circa 400 dollari per persona all’anno sembra). Deve anche pagare vedove (e figli) in caso di morte in combattimento del capo famiglia, gli affitti di alcuni dipendenti nonché provvedere ai bisogni primari delle comunità (Mosul ha 3 milioni di abitanti). Lo stesso documento dell’Isis servito per ricostruire i proventi aiuta a calcolare le spese: il 44 per cento per stipendi dei combattenti, il 18 per cento per spese legati ai servizi sociali e sanitari, il 10 per la polizia islamica, il 3 per spese di “marketing” (internet, riviste, video) e circa il 20 per la logistica. E’ stato calcolato che attualmente lo Stato islamico spende di più di quanto guadagna, ma vi è un altro elemento che dovrebbe preoccuparci. Il bilancio dell’Isis è quanto più lontano ci possa essere da quello di uno stato sovrano, entità alla quale anela assomigliare, ed è piuttosto il ritratto di ciò che realmente è: un’organizzazione terroristica. I provenenti non sono determinati da attività produttive, se si eccettua la produzione, raffinazione e vendita di greggio che comunque è il provento che la comunità internazionale può più facilmente identificare e fermare (e ciò a prescindere dal fatto che il crollo del prezzo del petrolio da 130 dollari al barile a circa 45 costituisca anche per l’Isis un bel problema). Infatti, le tasse sono in realtà un’attività di estorsione (come il pizzo imposto dalla mafia) che aliena la simpatia della gente e che non possono essere aumentate oltre un certo limite. Oltre alle entrate, anche le uscite di cassa sono tipiche del crimine organizzato piuttosto che di una comunità essendo principalmente correlate a spese per il combattimento.

 

Vi è sono poi due problemi che l’Isis deve affrontare. Il primo è quello legato al movimento di denaro. Quando le cifre sono piccole, ci si può affidare a corrieri ma qui ci troviamo di fronte a movimenti rilevanti che non possono che passare attraverso circuiti bancari e che dunque sono, almeno in teoria, più facilmente tracciabili. Forse per questa ragione, secondo fonti della divisione antiterrorismo del dipartimento del tesoro americano, l’Isis così come altre organizzazione jihadiste fa ricorso ai trasferimenti di denaro virtuale come i bitcoin che considera meno tracciabili, più veloci e affidabili, utilizzati da quasi tutti i loro simili e non soggetti al rischio cambio. Il secondo problema è quello della sempre maggiore necessità di reclutare foreign fighter che in molti casi hanno bisogno di soldi per raggiungere i campi di addestramento. E anche qui i movimenti di denaro dicono molto. Tra il gennaio 2014 e il maggio 2015 le autorità spagnole hanno tracciato circa 250 movimenti di denaro inviato in conti di persone residenti nelle enclave spagnole di Ceuta e Melilla derivanti da banche siriane, turche, libanesi ed irachene. Molti di questi trasferimenti sono stati congelati e i destinatari identificati dal momento che non vi era alcuna informazione sulla causale dei versamenti e non vi era rapporto di parentela tra i beneficiari e coloro i quali avevano disposto i bonifici. Anche per quanto riguarda la vendita di greggio, l’acquisto e la vendita di armi o di droga o il pagamento di ordinativi per pezzi di ricambio di raffineria o di depuratori d’acqua sotto il controllo dell’Isis, i pagamenti non possono essere tutti cash. Da qualche parte vi debbono essere movimenti di denaro. Che David Cohen cerca di tracciare e colpire così come faceva Giovanni Falcone.