Sarasota (Florida), 11 settembre 2001: seduto in un’aula della scuola elementare Emma Booker, il presidente Bush apprende dal capo dello staff Andy Card le prime notizie sull’attacco all’America

La lezione di Bush

Stefano Cingolani
Ricordate l'attacco alle Torri gemelle? Come hanno reagito gli Stati Uniti e come non ha reagito l’Europa dopo il 13 novembre a Parigi

George W. Bush è in Florida, alla scuola elementare Emma Booker di Sarasota, la mattina dell’11 settembre 2001 quando, alle 8 e 46, l’American Airlines 11 dirottato dai terroristi guidati da Mohamed Atta si scaglia contro la torre nord del World Trade Center a Manhattan. Il presidente, in carica da appena otto mesi, decide di non interrompere bruscamente la sua visita e per una ventina di minuti legge con i bambini una storia di animali. Poco dopo le 9 si avvicina il capo dello staff, Andy Card, e gli sussurra all’orecchio. Anche la seconda torre è stata attaccata da un altro aereo di linea e si sta sbriciolando.

 

François Hollande è allo Stade de France la sera del 13 novembre 2015, convinto di assistere a un gran bel match di calcio tra Francia e Germania. Alle 21 e 17 si sente un’esplosione e poi un’altra. Lì per lì pensa a due mortaretti o tutt’al più a bombe carta di qualche ultrà. Poi un funzionario dell’entourage si china per parlargli all’orecchio proteggendosi la bocca con le mani.
Due immagini parallele, due foto a specchio: occhi sbarrati, maschera inebetita, poi una silenziosa quanto rapida uscita per la porta di servizio. Lo smarrimento, l’incredulità, la paura, il peso di decisioni alle quali nessuno dei due presidenti era preparato, tutto ciò si legge su quei volti. Eppure, la loro reazione apparentemente così simile non copre il divario, grande come il vallo atlantico, che separa gli Stati Uniti e l’Unione europea. Hollande che ha provato a fare come Bush, è rimasto solo con tutta la sua inadeguatezza.

 

“Nous sommes tous Américains”, scrisse Jean-Marie Colombani, direttore del Monde, nell’edizione del 13 settembre, ricordando John F. Kennedy a Berlino nel 1962 e inaugurando un genere che si sarebbe ripetuto più volte diventando vuota retorica dopo Charlie e, a quanto pare, anche dopo il 13 novembre. Non erano tutti americani allora, non sono tutti francesi oggi. Calato il sipario sulla commedia degli ipocriti, arriva il momento di rivalutare la reazione dell’Amministrazione Bush all’11 settembre, fugando la damnatio memoriae imposta dagli obamisti ancor più che da Barack Obama.

 

George Tenet, allora capo della Cia, ricorda che due giorni dopo l’attacco alle Twin Towers l’agenzia aveva messo a punto un piano che venne discusso il 15 settembre a Camp David. “Dobbiamo intervenire velocemente, con durezza e in modo leggero”, dicemmo al presidente. “Tutti, a cominciare da Osama bin Laden, si aspettano una invasione dell’Afghanistan come quella sovietica. Ebbene avranno la più grande sorpresa della loro vita. E non sarà gli americani contro gli afghani”. La chiave dell’intervento era nel concentrare le forze contro il nemico principale, il regime dei talebani che nutriva e copriva al Qaeda, facendo leva in modo intenso sull’intelligence di Ahmed Shah Massoud, il Leone del Panjshir, ucciso dai jihadisti due giorni prima dell’attacco all’America.

 

Il team di collegamento tra la Cia e l’Alleanza del nord era il nucleo attorno al quale aggregare le tribù afghane che volevano liberarsi dei talebani, operazione politica che andava fatta dalla Casa Bianca mentre il Pentagono metteva a punto i piani di quella che sarebbe stata Enduring Freedom. Bush chiese alla Nato di applicare l’articolo quinto del Patto atlantico, mettendo tutti di fronte al dovere di difendere l’alleato minacciato. E partì una intensa tessitura diplomatica alla fine della quale venne costruita una coalizione ampia che aveva nei paesi membri il nocciolo duro al quale tutti gli altri, a cominciare dai paesi islamici coinvolti, avrebbero dato sostegno. Una mossa chiave fu ottenere dalla Russia un tacito consenso alle operazioni militari attraverso i suoi stati satellite dell’Asia centrale, Tajikistan, Uzbekistan e Turkmenistan. Quanto alla Cina, era disponibile a rabbonire l’Iran. Non solo. Il Pakistan, nonostante le sue doppiezze e le coperture assicurate ai talebani e a Osama bin Laden, venne costretto a sostenere l’invasione.

 

La campagna militare in Afghanistan è stata un successo, la ricostruzione è ancora in corso, i talebani sopravvivono anche se isolati e si sparano tra loro al confine con il Pakistan. Tuttavia il regime è cambiato e lo stato ricostruito. C’è voluto tempo, Enduring Freedom si è conclusa il 31 dicembre di un anno fa, però la missione non è del tutto compiuta. I neoconservatori americani come Bill Kristol, dicono che in fondo anche la Germania del secondo dopoguerra ha impiegato 15 anni a rimettersi in carreggiata con tutte le differenze che militano a favore dei tedeschi rispetto agli afghani.

 

La seconda risposta rapida ha riguardato la politica monetaria. Il pericolo immediato era il collasso di Wall Street non solo per effetto dell’ondata di paura che il crollo del World Trade Center (dall’alto valore simbolico) aveva generato nel mondo intero, ma per la possibilità di un vero e proprio terrorismo finanziario. Molti vedevano già gli sceicchi e la stessa Arabia saudita ritirare i loro ingenti investimenti finanziari provocando il crac del sistema. Era essenziale dunque gettare moneta sul mercato, subito e senza limiti.

 

Nel suo libro “L’età della turbolenza”, l’allora presidente della Federal Reserve Alan Greenspan ricorda le frenetiche riunioni alla Casa Bianca e la scelta di sostenere a tutti i costi l’economia, con abbondante liquidità, una riduzione delle imposte, un aumento delle spese (non solo militari). “La bolla difensiva che avevamo creato per proteggere le nostre istituzioni, ha influenzato ogni decisione”, scrive. Se la Fed non avesse allagato il mondo di dollari, le banche americane ed europee sarebbero già in mano agli argentieri della corona saudita. Non si può parlare di economia ignorando la politica. Greenspan rammenta anche le discussioni con George W. Bush sui rischi di un deficit pubblico elevato proprio nel momento in cui la moneta era così a buon mercato. Su questo punto, perse e il segretario al tesoro Paul O’Neill, che sosteneva la tesi della Fed, gettò la spugna nel dicembre 2002. “La spesa dei consumatori condusse l’economia al di là della malattia dell’11 settembre e ciò che spinse la spesa dei consumatori fu la casa”, scrive l’ex banchiere centrale. I mutui a basso prezzo, subprime compresi, hanno dato un alloggio al 70 per cento degli americani, sostenendo la domanda e la Borsa, una volta che il denaro aveva abbandonato il mondo internet.

 

E’ lì l’origine della speculazione immobiliare che scoppierà tra il 2007 e il 2008? In realtà, l’espansione monetaria degli Stati Uniti, a differenza dal passato e da quel che sta scritto sui libri di testo, non ha provocato inflazione. Al contrario, nel 2003 “si presentò un pericolo più esotico: un declino del livello dei prezzi, una deflazione”, insiste l’ex capo della Fed. Le ragioni affondano nella concorrenza cinese, ma anche nelle innovazioni che abbattono i costi dei prodotti. Senza contare che allora il petrolio era ai minimi. Confessa Greenspan: “I nostri modelli per quanto complessi, non sono in grado di catturare il pieno ventaglio delle variabili che governano l’economia globale”.

 

L’esercito e poi la moneta; il terzo pilastro di ogni stato è la sicurezza interna, in altre parole la polizia e la magistratura. E qui le cose furono ancor più complicate per Bush, perché si trattava di convincere il Congresso ad approvare delle leggi speciali. Il Patriot Act entra in vigore il 26 ottobre. Alla Camera dei rappresentanti prende 357 voti a favore e 66 contrari, al Senato è 98 a uno. Joe Biden oggi vicepresidente degli Stati Uniti e allora senatore del Delaware proclama: “E’ folle che l’Fbi possa intercettare la mafia e non i terroristi”. Numerosi sono i provvedimenti restrittivi, dai controlli alla frontiera al documento d’identità che prima non era necessario portare in tasca all’interno degli Stati Uniti, fino ai maggiori poteri della polizia. Ma la questione più controversa riguarda le intercettazioni telefoniche, diffuse, a strascico e senza l’autorizzazione preventiva della magistratura.

 

La libertà di investigare in ogni tempo, luogo e modo, ha suscitato molti polveroni. La legge, rinnovata nel 2011 da Obama, è stata rimpiazzata nel 2015 da un nuovo provvedimento, il Freedom Act, che lascia immutate molte misure restrittive e altre le fa cadere, la più rilevante riguarda proprio la facoltà di intercettare. In mezzo c’è stato Edward Snowden le cui rivelazioni sono state cavalcate dai democratici liberal e dai libertari repubblicani come Rand Paul. Ma per 14 anni il territorio americano è stato protetto. Ora le cose stanno cambiando e anche negli Usa come in Europa il nuovo pericolo viene dai terroristi fatti in casa. Ciò riapre la querelle sulle leggi speciali e la sicurezza torna in primo piano nella campagna elettorale per le presidenziali.

 

Di quella esperienza deve tener conto Hollande. Nuove leggi più efficaci contro il terrorismo sono state messe in campo già dopo l’attentato a Charlie Hebdo nel gennaio scorso, ma quando ha detto che “la Francia è in guerra” e bisogna adattare la Costituzione, il presidente ha cambiato le regole del gioco, prendendo a modello proprio quel che hanno fatto gli Stati Uniti dopo l’11 settembre. Americani e francesi che hanno introdotto per primi la liberal-democrazia, si pongono il problema che paesi decisamente meno liberali come la Germania, la Spagna o l’Italia rimuovono. Può darsi che pesi l’ombra delle dittature nazi-fasciste, però non ci sarà né un Patriot né un Freedom Act nell’Unione europea. Non basta dire che la Ue non è uno stato federale, ma un patto tra stati sovrani molto diversi tra loro: il fatto è che la maggior parte dei paesi non si ritiene in guerra. La solidarietà richiesta dalla Francia con il ricorso alla clausola 42.7 del trattato di Lisbona, è rimasta sulla carta. Alla coalizione anti Isis si sono aggiunti, dopo il voto di mercoledì a Westminster, i Tornado britannici con bombe che si affiancano ai Tornado fotografici tedeschi (e italiani nel nord dell’Iraq). Intanto la Russia e la Turchia bombardano per proprio conto e si bombardano tra loro. Insomma, la lotta al Califfato non sarà come la lotta ai talebani; il mullah Omar fuggì in motocicletta, Abu Bakr si liscia la barba e aspetta i nemici sulla riva dell’Eufrate.

 

Una sola istituzione europea ha i mezzi per agire all’americana, ed è la Bce. Ne ha la volontà? Al suo interno è divisa, Mario Draghi e la maggioranza dei banchieri centrali vogliono aumentare la liquidità sul mercato, spingere a tutta forza l’inflazione verso il 2 per cento e mettersi al riparo da futuri collassi finanziari. Insomma, fare grosso modo come Greenspan dopo l’11 settembre. La Bundesbank è contraria sotto la bandiera della stabilità, d’altra parte la Cancelleria di Berlino esclude la guerra e non vuole combattere in Siria, sotto le insegne della tranquillità interna. Giovedì la Bce ha annunciato che estenderà al marzo 2017 l’acquisto di titoli, ma senza aumentare la quantità mensile (60 miliardi di euro). I mercati sono rimasti delusi, si attendevano di più, aspettavano la “bolla difensiva” della quale parlava Greenspan, invece qui ci sono tante bollicine poco efficaci nella lotta al terrore che non riescono a far decollare un’economia stanca ed esangue come l’intero vecchio continente.

 

Né esercito, né leggi, solo una moneta centellinata con parsimonia. E’ chiaro che non basta, è evidente che l’Europa è senza lance e senza scudi. La strategia americana è stata un antidoto efficace contro il terrorismo? Gli Stati Uniti hanno fatto da pompieri, anche se il fuoco continua a covare sotto le ceneri. In ogni caso, sono riusciti a proteggere finora il proprio territorio. Il contenimento, del resto, è la dottrina che hanno saputo applicare meglio a cominciare dalla Guerra fredda. Per passare alla vera controffensiva, non possono agire da soli.

 

[**Video_box_2**]Nel dibattito post 11 settembre e in quello post 13 novembre, c’è anche un grande equivoco che riguarda la natura del terrorismo. La discussione finora ha riguardato l’attributo: è o no islamico? Ma una questione ancor più pelosa riguarda il sostantivo: il terrorismo è un crimine? E di che tipo? Il diritto internazionale è stato benevolo nei confronti di chi usa il terrore per difendere la libertà. La filosofia liberale che risale alla lotta contro la tirannia, la cappa dei totalitarismi del Novecento, il rimorso anticolonialista, molti fattori hanno influito. Alla fine, il terrorismo è stato considerato dalle Nazioni unite un crimine internazionale per perseguire il quale, quindi, si possono bypassare limiti e regole nazionali. Ma non un crimine contro l’umanità, anche se ne avrebbe tutte le caratteristiche. Un tentativo di introdurre il principio è stato sonoramente sconfitto. Privo di uno strumento giuridico legittimante, l’Onu sostiene che in ogni caso l’Isis stia commettendo una serie di concreti crimini contro l’umanità, un modo per aggirare i farisaici steccati.

 

Le sottigliezze, tutti i se e i ma, anche quelli comprensibili o giuridicamente fondati, non risolvono il problema di fondo: il terrorismo odierno, in particolare quello islamico, quello delle cinture esplosive e del sacrificio in nome di Allah, non è concepito come un male globale. Se è così, va affrontato con misure di ordine pubblico. Si dice: non cambiamo le nostre abitudini per non fare un favore ai terroristi, sviluppiamo un dibattito culturale, mettiamo dei fiori nei loro kalashnikov. Già sentito negli anni 70, anche se allora ci fu un giro di vite in Italia (la legge Cossiga del 1979) e in Germania. Non dobbiamo inasprire le nostre norme, non possiamo rinunciare allo stato di diritto: perché forse gli Stati Uniti non lo sono più?

 

Nel suo romanzo più forte e visionario, “La peste”, Albert Camus scrive: “Il bacillo non muore né svanisce mai interamente, può restare in sonno per decine di anni nei mobili o negli abiti, aspetta pazientemente nelle stanze da letto, nelle cucine, nei bauli, nei fazzoletti e nelle vecchie carte e forse il giorno verrà in cui per le istruzioni o per la sfortuna dell’umanità, la peste solleverà i suoi ratti e li manderà a morire in qualche ben pasciuta città”. Oggi, di fronte a un altro flagello, storico non naturale, negli anni e nei luoghi in cui abbiamo vissuto la satolla soddisfazione dell’ultimo Narciso che vive solo per la propria auto-affermazione, le parole di Camus suonano, ha scritto Tony Judt nel novembre 2011, come “un allarme antincendio nella notte del compiacimento e dell’oblio”.