David Cameron con Lynton Crosby

Il Mago di Oz, nelle urne

Marco Valerio Lo Prete
Lui è Crosby, super stratega della sorprendente vittoria di Cameron alle elezioni inglesi. L’uomo che sussurra ai conservatori dice al Foglio come si annienta la retorica progressista.

Roma. David Cameron, nelle ultime settimane di campagna elettorale prima della sorprendente vittoria dello scorso 7 maggio alle elezioni inglesi, si svegliava spesso durante la notte. Una volta, afferrato il cellulare, ha raccontato di aver letto un brevissimo sms di Lynton Crosby con su scritto “WEF”. World economic forum? Lì per lì il premier in pectore non capì perché lo stratega politico dei conservatori gli stesse ricordando l’evento patinato che si tiene ogni anno a Davos. Poi inforcò gli occhiali e lesse meglio: “WTF”, abbreviazione ben meno edulcorata che sta per “what the fuck”. “Il mago di Oz” della consulenza politica, come lo hanno ribattezzato alcuni estimatori, non doveva essere esattamente soddisfatto della performance del premier la sera prima. Nessuno d’altronde può negare che Crosby sia una persona diretta; il quotidiano inglese (antipatizzante) Independent lo ha battezzato anche per questa ragione “il José Mourinho della strategia politica”. “Quando lavoro con i miei clienti – ha detto Crosby al Foglio in un seminario a porte chiuse ospitato dalla British chamber of commerce e dall’Ambasciata di Sua Maestà a Roma – ricordo sempre loro quanto sosteneva un political strategist del quinto secolo avanti Cristo, Solone il Vecchio: ‘Quando dai consigli, cerca di aiutare, non di compiacere’”.

 

L’uomo che sussurra ai conservatori del pianeta, tuttavia, ha un profondo rispetto dei politici: “Non foss’altro perché ho esordito così anche io, trent’anni fa in Australia, candidandomi per il Partito liberale in un seggio elettorale da sempre molto combattuto. Ho iniziato come fanno un po’ tutti, buttando giù un volantino di propaganda. Ho perso ma ho capito una cosa: il messaggio che trasmetti conta più di tutto il resto”. Insegnamento che Crosby ha messo a frutto, eccome, fino a fondare nel 2002 la società di consulenza politico-strategica CT Group con il concittadino australiano Mark Textor. Al fondatore d’altronde si era già rivolto il primo ministro liberale John Howard per conquistare il governo di Canberra nel 1998 e nel 2001; Crosby avrebbe coniato tra l’altro lo slogan più usato dallo stesso Howard negli ultimi giorni di dibattiti televisivi: “Decideremo noi chi arriva in questo paese e in quali circostanze”, disse il politico australiano durante l’affaire Tampa, bloccando una nave norvegese che stava attraccando nel paese con 438 richiedenti asilo a bordo. Poi il Partito conservatore inglese si avvalse dei servizi di CT Group nel 2005: e così, per la prima volta da quando Tony Blair era alla guida dei laburisti, i Tory riuscirono a strappare 33 seggi alla sinistra. Nel 2008 Crosby ha diretto la campagna elettorale vincente di Boris Johnson, strappando la sindacatura di Londra a Ken Livingstone; nel 2012 ha fatto il bis per la riconferma del biondissimo esponente dei Tory. Nel 2013 è sempre lui a suggerire Tony Abbott, l’esponente conservatore che è arrivato alla premiership australiana interrompendo un decennio di potere laburista. Infine, nel maggio di quest’anno, il “Campaign director” dei Conservatori inglesi ha lavorato alla vittoria più inattesa, quella che ha assegnato ai Tory di Cameron una maggioranza assoluta a Westminster (331 seggi), senza nemmeno bisogno di alleanze con i Lib-Dem. “Questa vittoria, per me, non è stata una sorpresa – replica Crosby – Osservo piuttosto che commentatori e giornali avevano fatto troppo affidamento sui sondaggi. Questi ultimi sono diventati così un prisma attraverso il quale leggere tutta la campagna elettorale”.

 

Alla fine del 2012 la Bbc diede la notizia che i conservatori, arrivati al potere nel 2010 in coalizione con i Lib-Dem, si erano affidati a Crosby e a Textor per le future elezioni. “David, rompi il salvadanaio, assumili!”, avrebbe detto Johnson al suo segretario di partito Cameron. D’altronde in quel momento, nelle rilevazioni demoscopiche, i laburisti erano avanti di 12 punti percentuali sul partito di governo: “Ma sono gli elettori a decidere il risultato delle urne, non i sondaggi”, commenta Crosby. Che ci tiene a non svelare tutto l’armamentario di ricerche, sondaggi e tecniche di convincimento messe all’opera per mesi. Certo è che il suo team comprese come l’elettorato inglese, più che appassionarsi a specifiche politiche pubbliche, fosse in cerca di sicurezza, intesa in senso ampio, a fronte del rigurgito di instabilità e terrorismo in medio oriente e delle difficoltà di tanti paesi europei a gestire riforme strutturali e finanze pubbliche pencolanti: “I conservatori hanno deciso dunque che la priorità era la sicurezza, sia fisica sia economica. La vittoria non è stata la semplice dimostrazione del motto ‘it’s the economy, stupid’. Certo, la ripresa dell’economia è stata uno dei nostri cavalli di battaglia. Sapevamo che proprio la capacità di gestione dell’economia era un aspetto su cui i conservatori erano in vantaggio sui laburisti, quindi abbiamo fatto di tutto per mantenere il dibattito su questo tema. Non sarebbe bastato, però, per vincere. Abbiamo fatto sì che il dossier economia apparisse più attinente e vicino alla vita reale di ciascuno degli elettori. Inoltre i conservatori hanno insistito nel presentare ‘un piano di lungo termine’”. Crosby adesso ricorda sorridendo le prese in giro degli avversari sul “ritornello” cameroniano del “piano di lungo termine”: “Al momento del voto, però, a milioni di elettori fu chiaro che i conservatori avevano un piano, e il fatto che fosse di lungo termine li rassicurava. E’ stato decisivo, per questo, che David fosse un leader fermo e sicuro di sé, in grado di farsi portatore di un messaggio chiaro”.

 

Questa strategia contrasta con il pregiudizio secondo cui le agenzie del tipo di CT Group tenderebbero a privilegiare, nelle campagne politiche come quelle per i clienti corporate, il cosiddetto “short termism”, cioè la veduta corta. Crosby riconosce che esistono casi di miopia dei politici e dei manager indotti sempre più a privilegiare scelte di corto respiro per soddisfare elettori o azionisti troppo impazienti. Ciò detto, non è tra quanti – alcuni politologi inclusi – ritengono che il correttivo tecnocratico sia l’antidoto migliore a questo malessere democratico: “Non delegherei nulla ai tecnocrati. Ricordo anzi che i politici hanno il diritto, oltre che l’onore, di essere in prima linea. Quando offro i miei consigli, ricordo sempre che il mio compito non è avere una visione filosofica del mondo, e rimango consapevole che sono i politici a rischiare la faccia e anche il collo. Per questo meritano la nostra stima”. Separazione delle carriere, insomma, tra politico tout court e stratega politico.

 

A quest’ultimo, nel caso delle scorse elezioni inglesi, è toccato per esempio capire quanti e quali fossero i seggi decisivi su cui si sarebbe giocata la conquista del governo: erano 126 all’ultima tornata britannica. Dopodiché, con ciascuno dei 126 candidati in bilico, Crosby ha speso almeno tre ore del suo tempo per un confronto a tu per tu sulla strategia da adottare in maniera coordinata con il centro. La disciplina prima di tutto, infatti: questa la richiesta dello stratega australiano ai suoi clienti, specie quando ha a che fare con politici che sgomitano per farsi notare. Sarà per tale ragione che i giornalisti britannici hanno scritto decine di retroscena dando fiato ai mugugni di alcuni candidati in giro per il paese e di certi inquilini di Downing Street, scossi – come ha riportato una volta il Daily Mail – per “il modus operandi straordinariamente autoritario e impositivo” di Crosby. Il quale però ha altro su cui riflettere che non le lagnanze dei suoi assistiti. Nei mesi che hanno preceduto il voto inglese, per esempio, il suo team si è scervellato per capire quale fosse la modalità più efficace per raggiungere gli elettori incerti. “Le domande da chiedersi sono sempre le stesse quattro, nel Regno Unito, in Australia così come in qualsiasi altro paese. Primo, chi sono coloro che decideranno davvero il risultato? Secondo, dove si trovano? Terzo: cosa gli sta a cuore più di tutto il resto? E infine, come li possiamo raggiungere?”. L’ispirazione è arrivata in parte dalla prima campagna elettorale di Barack Obama per la Casa Bianca, quella del 2008; allora i social network come Facebook furono utilizzati per esempio per spingere i più vicini alla causa obamiana (identificati perché firmatari di appelli o perché follower degli account del candidato) a convincere un vicino di casa bussando direttamente alla sua porta (identificata attraverso un rapido raffronto dei codici postali). Oltre a ciò, i consulenti britannici hanno rivalutato l’invio di lettere via posta invece delle più economiche e-mail; lettere da personalizzare, ovviamente, enfatizzando certi aspetti del programma elettorale e del messaggio di Cameron in base al profilo del destinatario, al punto che in uno stesso collegio sono state spedite 600 versioni diverse di una stessa lettera. “Si tratta di sfumature, ben inteso, perché il messaggio dev’essere sempre lo stesso e dev’essere semplice – dice Crosby – Purché reso tangibile per il singolo elettore, e poi ripetuto spesso. Questo vale soprattutto in un’èra in cui un cittadino medio è investito da una quantità incredibile di notizie, commenti e stimoli di diverso tipo. E’ come se ciascuno di noi dicesse ai politici: meno parli e più sono disposto ad ascoltarti”. In definitiva Crosby è convinto che sia stata una la differenza di fondo tra la campagna elettorale dei Tory del 2010 e quella del 2015: “Nella prima i conservatori sfidarono Gordon Brown, allora il primo ministro meno popolare della storia inglese. E nonostante ciò, riuscirono a vincere solo grazie a un governo di coalizione con i Lib-Dem. Nel 2015 hanno conquistato da soli una maggioranza assoluta perché il messaggio per l’elettore fu più chiaro e mobilitante: ‘Se tu voti, puoi fare la differenza. E fare la differenza in questo caso vuol dire che avrai garantito un piano di lungo termine per la tua sicurezza’”.

 

[**Video_box_2**]Con un simile pedigree di vittorie sul campo, è comprensibile che ora molti analisti si stiano chiedendo da quale parte si schiereranno Crosby e la sua squadra in vista del referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Al momento, da nessuna delle due parti, anche se c’è da giurare che richieste e offerte siano arrivate tanto dal campo del “sì alla Brexit” tanto da quello del “no”. Paura forse di non riuscire a gestire, nemmeno con gli strumenti sapienti della strategia politica, un dibattito così profondamente innervato da pulsioni populistiche? “Devo dire che da australiano trovo davvero difficile capire cosa voi europei intendiate per ‘populismo’ – conclude Crosby – In questo continente il ‘populismo’ è un concetto eminentemente negativo. Io invece ritengo che la politica debba prestare ascolto a ciò che i cittadini hanno da dire, anche se non si tratta sempre di cose così carine. Non sto dicendo, ovviamente, che i politici debbano dire esattamente quello che i cittadini si vogliono sentir dire. Ma corrispondere alle loro volontà dovrebbe pur sempre rimanere in cima alla lista delle preoccupazioni di un politico. Questo vuol dire essere un buon rappresentante”.