Navi americani in rotta verso lo Yemen (foto LaPresse)

Se questa è una pace con Teheran

Redazione
Messa davanti alla scelta tra il prolungamento di una infruttuosa campagna aerea – che però ha provocato molti morti tra i civili yemeniti – e un intervento di terra che senza dubbio sarebbe stato ostico (per usare un eufemismo), l’Arabia saudita ha chiuso martedì sera al tramonto l’operazione “Tempesta decisiva”.

Messa davanti alla scelta tra il prolungamento di una infruttuosa campagna aerea – che però ha provocato molti morti tra i civili yemeniti – e un intervento di terra che senza dubbio sarebbe stato ostico (per usare un eufemismo), l’Arabia saudita ha chiuso martedì sera al tramonto l’operazione “Tempesta decisiva” contro i ribelli sciiti Houthi sostenuti dall’Iran. I trenta giorni di bombardamenti non hanno riportato lo Yemen allo status precedente, quello preferito dalla casa Saud, con i ribelli confinati al nord e un presidente amico nella capitale Sana’a. Piuttosto, le cose sono rimaste come prima: gli Houthi spadroneggiano da nord a sud e incalzano da vicino il presidente Abd Rabbo Mansour Hadi, rifugiato sull’estrema costa sud nella città di Aden. Non è chiaro perché la Tempesta lascia ora la scena a una nuova operazione, “Restituire la speranza”, che i sauditi dicono molto più focalizzata su una soluzione politica. Forse Riad sentiva che la situazione stava loro sfuggendo di mano, verso una escalation catastrofica? Un’azione di contenimento locale cominciava a trasformarsi in una crisi capace di superare in gravità le altre orribili crisi che in questo momento stanno squassando il medio oriente, perché stava per aprire un conflitto potenziale tra americani e iraniani.

 

Proprio davanti al golfo di Aden la portaerei americana USS Theodore Roosevelt assieme ad altre navi fronteggia in queste ore senza muoversi una flotta di almeno otto navi da guerra iraniane. Poco lontano, sulla terraferma, ad Aden, si sta combattendo l’ultima battaglia tra i ribelli Houthi e il governo del presidente Hadi, ancora sostenuto dall’ampia coalizione sunnita capeggiata dall’Arabia Saudita, a cui l’America fornisce intelligence e supporto logistico. La portaerei Roosevelt è arrivata martedì davanti ad Aden per monitorare e bloccare il flusso di navi iraniane che si sospetta stia rifornendo di armi e mezzi l’avanzata dei ribelli. E’ un’operazione di sorveglianza, ma come dice un ufficiale militare americano al Wall Street Journal, a seconda di come si muoveranno le navi di Teheran potrebbe esserci uno “showdown”.

 

[**Video_box_2**]Davanti alle coste di Aden, l’America e l’Iran sono a tanto così da uno scontro armato, e questo decisamente non depone a favore di quanti, in primis il presidente americano Barack Obama, si erano convinti che il deal atomico, siglato in forma provvisoria pochi giorni fa a Losanna (a fine giugno è prevista la firma definitiva), avrebbe propiziato lo scongelamento dei rapporti con il blocco di potere guidato dall’Iran. Sembra che gli ottimisti non abbiano fatto i conti con gli ayatollah, che non hanno abbandonato il loro piano di dominio sulla regione, che comprende il sostegno agli Houthi in Yemen, il rinfocolare la guerra siriana con il dittatore Bashar el Assad, e la messa in discussione continua – non solo a parole – del diritto di Israele a esistere. Per il regime iraniano il deal atomico con l’America non è un fine, ma un semplice mezzo, e cosa succederebbe a questo deal ancora tutto da confermare se dovesse esserci uno scontro in mare tra navi americane e iraniane al largo di Aden?

 

Di solito la firma di un accordo, e di uno storico come quello sul nucleare iraniano, è preceduta quanto meno da un cessate il fuoco. Teheran invece continua la sua politica di aggressione su molti fronti come se niente fosse. E’ questo l’interlocutore con cui l’America e l’occidente vogliono fare la pace dopo oltre quarant’anni?

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